Posizioni sul referendum

Perché Maurizio Martina voterà Sì «La riforma è una vera necessità»

Perché Maurizio Martina voterà Sì «La riforma è una vera necessità»
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«La riforma della Costituzione è una necessità del Paese da più di trent’anni. Dire sì al referendum è dire sì a un processo che cambi davvero il sistema». Non può scegliere parole più dirette il ministro alle Politiche agricole, alimentari e forestali Maurizio Martina per spiegare le ragioni per cui, secondo lui, il 4 dicembre i cittadini dovrebbero votare sì. Premette: «Il sistema istituzionale che non si modifica dà ossigeno ai populismi. La politica incapace di innovazione regala la possibilità alle pulsioni più negative di esplodere. L’essenza del referendum sta qui: da tre decenni si discute di un cambiamento, che però non arriva mai. Ora ne abbiamo l’occasione».

Due sono gli aspetti che saltano all’occhio: la semplificazione del rapporto tra il Governo e il Parlamento e il nuovo Senato, formato da 95 senatori.
«Basta un dato: dalla presentazione di una legge di iniziativa parlamentare alla sua approvazione in media passano un anno e 165 giorni. Un’eternità in alcuni casi, che produce uno scollamento e una distanza sempre maggiore tra i tempi del Palazzo e quelli della società».

Su cosa scommette la riforma?
«Sull’innovazione. In Europa è la prima volta che si assiste a un’auto-riforma della politica, è un messaggio fortissimo. Un messaggio che parte dal superamento dell’anomalia per cui Camera e Senato fanno lo stesso mestiere. Il nostro impianto attualmente è troppo pesante e lo scarto temporale diventa un brodo di coltura per l’anti-politica».

 

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Quindi il superamento del bicameralisimo perfetto.
«Vogliamo colmare una frattura, diversificando le funzioni delle due realtà. L’obiettivo è doppio: dare più spazio ai territori, con la Camera di rappresentanza delle autonomie territoriali, ed essere più sobri. Nel 2016 non tiene più avere oltre novecento parlamentari. È un numero folle se si pensa che in Cina sono duemila».

Si tratta anche di tagliare i costi della politica: il risparmio stimato è intorno ai seicento milioni complessivi.
«In realtà l’aspetto economico è solo un pezzo della questione. La partita si gioca piuttosto sulla variabile temporale. Domandiamoci quanti soldi buttiamo nell’attesa di una legge, quanto aspettano le imprese per sapere cosa fare, quanto tempo perdiamo tra il rimpallo di competenze. Dobbiamo mettere in campo strumenti più efficaci e questa è la strada. A fronte di un meccanismo inceppato, abbiamo il dovere di fornire tempi e competenze chiari».

Però il cosiddetto bicameralismo perfetto rimarrà per alcune materie.
«È giusto che sia così. Certi temi, come la discussione dei trattati europei, richiedono un’impostazione simile».

Poi c’è l’abbattimento del numero dei senatori.
«Ci vuole un equilibrio tra le rappresentazioni territoriali e le istituzioni nazionali. Con cento senatori avremmo un confronto più forte e vero, utile in discussioni come quelle sulla politica migratoria. Abbiamo bisogno di un nuovo rapporto tra il centro e la periferia e la riforma ne dà l’opportunità, senza stravolgere le responsabilità di governo».

 

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Tra i tanti punti che cambieranno se passa la riforma c’è il rapporto tra Stato e Regioni a statuto ordinario. A regolarli ora è il Titolo V che, oltre a competenze esclusive statali e a quelle regionali, prevede materie a doppia competenza (dove lo Stato determina i principi fondamentali e le Regioni legiferano nel merito).
«La riorganizzazione è fondamentale perché Stato e Regioni diventino più credibili. Oggi ci troviamo di fronte a difficoltà enormi, dove si fatica a capire chi fa cosa. Un esempio? Ogni anno vengono presentati più di 160 ricorsi tra Stato e Regioni su migliaia di leggi sia regionali, sia statali. E la madre di tutti i problemi è il Titolo V».

L’obiettivo è quindi far ritornare in casa dello Stato, con un innalzamento del livello di responsabilità nazionale, alcune materie specifiche come le politiche energetiche, quelle sul turismo o il diritto di cura.
«Di fronte a quest’ultimo è centrale la parità di trattamento. Non possiamo avere una cura a geometria variabile per cui in una Regione un farmaco oncologico arriva tre anni più tardi rispetto a un’altra».

Ma così non si toglie autonomia alle Regioni «ordinarie»?
«Quelle che presenteranno bilanci in ordine potranno chiedere spazi di manovra superiori per materie “contrattate”. Ma solo, ripeto, a patto che i bilanci siano in regola. Abbiamo già assistito a deficit che hanno generato disastri clamorosi».

 

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C’è comunque la clausola di supremazia, che lo Stato può esercitare per intervenire su materie non di competenza esclusiva.
«È una norma di garanzia, che gli permette di agire in casi specifici per tutelare l’interesse nazionale».

Per alcuni infine il «neo» della riforma è l’esclusione delle Regioni a statuto speciale. «Su questo fronte si poteva fare di più, è un fianco debole. Ma se vuoi fare una riforma devi anche avere i numeri. Rimane comunque una partita aperta». Parliamo degli stipendi di chi siede nei Consigli regionali: verrà posto un tetto?
«È un passaggio di normalità. È illogico che un consigliere, per esempio in Lombardia, guadagni più del sindaco di Milano. A fronte di un impegno costante e concreto da parte di entrambi, i livelli di responsabilità sono diversi e serve un equilibrio tra le parti. Stop alle Regioni che hanno inventato indennità su indennità per gonfiare i conti, abbiamo bisogno di un Paese normale».

 

 

Con la riforma spariscono le Province, oggi enti di secondo livello.
«Con il decreto Delrio l’abo - lizione era già stata prevista. Si tratta di chiudere una transizione, eliminandole dalla Costituzione. Sappiamo che il passaggio non è semplice e costerà fatica».

Ci sono stati vari ricorsi.
«Sono stati tutti superati, per fortuna possiamo concentrarci sul merito del testo».

C’è chi ha suggerito di spacchettare i quesiti.
«La riforma è un unicum, un impianto di cambiamento unitario. Non avrebbe senso».

E se la riforma fosse bocciata?
«Non nego la preoccupazione, si aprirebbe una spirale delicata. Mi impressiona l’eterogeneità del fronte del no, pronto a bloccare il Paese. È un gruppo piuttosto “strampa lato”, che non propone alternative ma dice solo di non fare. Noi dobbiamo lavorare proprio su questo e ognuno deve dare una mano. Per una svolta ci vuole un movimento popolare, tutti i cambiamenti arrivano dal basso».

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