Uno studio dell'università di Lovanio

Ecco perché la tristezza dura ben 240 volte più dell'allegria

Ecco perché la tristezza dura ben 240 volte più dell'allegria
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Saranno contenti quelli di "Motivation and Emotion”, la rivista che ha pubblicato lo studio di Philippe Verduyn e Saskia Lavrijsen dell’Università di Lovanio sulla durata delle emozioni negli adolescenti. Ne hanno riferito i siti di mezzo mondo: PsychCentral, Science Codex e da noi Huffington Post. I due hanno interrogato 233 studenti sulla persistenza che avrebbero in loro 27 diversi stati emozionali: paura, disgusto, sorpresa, noia, irritazione, tristezza e altri. Hanno anche cercato di conoscere le strategie che i loro indagati usano per uscire dagli stati fastidiosi e prolungare i gradevoli.

Cosa ne è venuto fuori? Che la condizione da cui si può uscire più in fretta è la noia. Quella che quando si attacca non molla mai è la tristezza. Un calcolo molto sofisticato certifica che la seconda dura 240 volte più a lungo della media delle altre. Numero un po’ troppo secco: facciamo tra 230 e 250 che forse è più plausibile. Duecentoquaranta vuol dire 4 ore di buio contro 60 secondi di sole. Dall’alba al tramonto (12 ore negli equinozi) contro tre minuti di felicità. Non sembra credibile. Però, vedi mai che sia vero.

Chi riferisce della ricerca dice anche che le ragioni del privilegio temporale che il nostro corpo - la nostre psiche, i nostri ormoni, i neuropeptidi o che altro - concede alle sensazioni sgradevoli potrebbe dipendere dal fatto che esse vanno “mano nella mano” con eventi di un certo rilievo, come la morte di qualcuno o un’alluvione che spazzi via la casa. O anche una caviglia rotta in montagna. Gli stati emotivi che si collocano nella zona del piacere, invece, risulterebbero legati ad eventi meno significativi, come una temperatura fresca per coloro che amano il fresco o il sole che batte a picco per coloro che hanno fra i loro geni quelli dei sauri, o lucertole che dir si voglia. Lo studio non lo dichiara espressamente, ma lascia spazio a pensare che potrebbero rientrare in questa seconda categoria anche quegli interminabili ma concitati momenti dopo i quali alcuni si fumano una sigaretta, per esempio. E in questo caso avremmo qualcosa da osservare circa la scarsità di significazione.

Lo studio dice anche che nei momenti di tristezza il tempo sembra non passare mai, mentre quando si è contenti non si vorrebbe mai andare a casa. E questo fatto avrà spinto Verduyn e Lavrijsen a bilanciare opportunamente i resoconti dei loro soggetti, che avranno magari esagerato in un senso o nell’altro nel riferire la durata dei loro stati di allegria o di infelicità.

Una cosa emerge comunque in modo certo e niente affatto sorprendente (come tendono invece ad affermare i resoconti di chi ha letto l’articolo): che la noia è lo stato che se ne va più facilmente. Per  mandarla via basta infatti una minimale abitudine a coltivare pensieri interessanti. Trattandosi di materiale poco costoso e sempre a disposizione, è sufficiente attivarne uno che la noia se ne va. Se poi si prende l’abitudine di portarsi dietro una matita e un blocchetto il problema è risolto per sempre.

La tristezza invece, è più rognosa. E questo non dipende - come i due ricercatori sospettano - dal prodursi di eventi di maggiore intensità o di più grave incidenza sullo stato d’animo rispetto ai volatili momenti in cui ciascuno che sia in senno è portato a ringraziare il cielo di averlo messo al mondo. Nessun momento della vita nostra è, infatti, lieto o triste di per sé. Come sanno i filosofi che non esistono frasi vere e frasi false, ma solo frasi che dicono il vero o che dicono il falso, così non esistono momenti lieti o tristi: esistono solo momenti che producono tristezza e altri che producono felicità. La precisazione non è da poco, perché eventi che fanno saltare di gioia gli uni possono essere gli stessi che mandano altri al tappeto. Dipende da come ci si arriva e da come li si attraversa.

In più, nel caso che sia la tristezza a venir sollecitata, quella bastarda ha la caratteristica di staccarsi, in qualche modo, dalla sua matrice, per attaccarsi come l’edera al soggetto in cui è capitata fino a trasformarsi in oggetto di piacere in sé. Una metamorfosi, l’avrebbe chiamata il latino Ovidio. Più in generale, gli antichi la chiamavano voluptas dolendi. Il piacere di farsi del male (per esempio: stare tutto il giorno a sentire la canzone che ascoltavamo con chi ci ha lasciato. Un’attività da codice di procedura penale). I due ricercatori di Lovanio, senza giungere a tanto, sottolineano comunque che è il ruminare dentro di sé sulle proprie sciagure (su quelle che si sono vissute come sciagure) a far aumentare esponenzialmente la durata della tristezza.

Noi sappiamo invece che la tristezza dura così a lungo perché è uno dei piaceri più raffinati cui l’uomo - soprattutto nel caso sia donna - possa indulgere sia da solo, si affliggendo i vicini. Che sarebbe Chopin se la tristezza sua non si fosse comunicata quasi per osmosi (il genio sa fare anche questo) a milioni di ascoltatori?

La gioia, al contrario, dura pochissimo perché è trasparente a se stessa. Non dà alcun sintomo, se non in casi gravissimi. Quando uno “si sente bene” gli sembra normale che sia così, non si accorge di star vivendo una calma felicità che perdura. C’è stato un periodo, nella storia italiana recente, in cui pareva che per essere impegnati bisognasse anche essere un po’ tristi, come Gino Paoli, come Juliette Greco e i suoi amici delle caves parigine. Al punto che - sentendosi improvvisamente in uno stato di grazia, la mattina presto, in auto - Giorgio Gaber (ma le parole sono di Sandro Luporini) sussurra che l’allegria che lo ha investito gli pare illogica.

Sì, è così: la tristezza dura 240 volte l’allegria perché dalla prima ci piace un sacco farci accarezzare e la seconda nessuno ci ha insegnato a riconoscerla, a ringraziare per averla avuta, o per essere in corso. Ci sono mancati i maestri veri.

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