La dimostrazione di come pochi tamponi e mancata zona rossa abbiano portato Bergamo alla tragedia
Secondo Giuseppe Remuzzi e i medici del Papa Giovanni Stefano Fagiuoli e Luca Lorini, un lockdown precoce e un maggior numero di esami di laboratorio avrebbero potuto evitare un numero così elevato di morti. La pubblicazione sul "New England Journal of Medicine"
Bergamo costituisce purtroppo un unicum a livello europeo e mondiale per le tante vittime piante da quando l’epidemia di Coronavirus è esplosa in Italia due mesi e mezzo fa. Ma un numero così elevato di morti si sarebbe potuto evitare? Sì, applicando un lockdown precoce per il contenimento dell’infezione affiancato a un numero elevato di tamponi anche sul personale medico. In teoria, cose di cui già ci eravamo resi conto, ma che ora sono anche dimostrate in un articolo scientifico pubblicato sul New England Journal of Medicine a firma di Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, e dei medici Stefano Fagiuoli e Luca Lorini, rispettivamente direttore dei Dipartimento di Medicina e di Emergenza urgenza e area critica dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
«Dall’esperienza di Bergamo possono essere tratte due lezioni principali. Innanzitutto, tutti gli operatori sanitari negli ospedali, nelle case di cura e nella comunità avrebbero dovuto essere sottoposti al test del Covid-19 e i positivi essere isolati, anche se asintomatici - spiegano i tre esperti -. Il personale medico è stato inizialmente trascurato nei tentativi di identificare e isolare le persone infette, che si concentravano su pazienti malati. Per questa ragione e perché i dispositivi di protezione individuale non sono stati immediatamente disponibili, in particolare per i medici di famiglia, sono morti 19 dottori in provincia (tutti di età compresa tra 62 e 74 anni). Ognuno di loro era coinvolto nella cura dei pazienti Covid, anche se nessuno ha lavorato nell’Asst Papa Giovanni XXIII. La seconda lezione, ancora più importante, è che un contenimento urgente e decisivo a livello regionale avrebbe dovuto essere implementato per contenere l’epidemia. Questo step avrebbe potuto ridurre il numero di casi Covid-19, prevenendo che gli ospedali venissero sopraffatti e, potenzialmente, limitare così il numero di decessi nella provincia».
«La Lombardia, e in particolare la provincia di Bergamo, è stata la zona d’Italia più colpita da Covid-19 - si legge nell'articolo -. Il 26 aprile, la provincia aveva 11113 casi confermati e 2932 morti per Covid-19. Ritardi nel riconoscimento della SARS-CoV-2 nei pochi pazienti infetti ricoverati nel piccolo ospedale di Alzano Lombardo - e ritardi nell’attivazione di misure per proteggere gli altri pazienti, il personale ospedaliero e i visitatori, così come l’implementazione di adeguate misure di contenimento nei paesi - hanno permesso al virus di diffondersi rapidamente. La provincia non è stata chiusa fino all’8 marzo, due settimane dopo i primi casi documentati all’ospedale di Alzano il 23 febbraio. Da allora, il virus ha infettato migliaia di persone, molte delle quali si sono recate al pronto soccorso dell’Asst Papa Giovanni XXIII, ospedale di riferimento per i pazienti bisognosi di assistenza urgente in tutta la provincia, e sono stati ammessi. Questi pazienti hanno rapidamente sopraffatto le capacità dell’ospedale, costringendo una riorganizzazione generale guidata da un’unità di crisi istituita il 23 febbraio. L’unità di malattie infettive è stata riconfigurata per trattare solo i pazienti Covid e gli altri pazienti sono stati ridistribuiti in tutto l’ospedale o, quando possibile, dimessi».
Nell’articolo viene quindi illustrata la rapida evoluzione e diffusione dei contagi, che ha visto occupati nel giro di poco più di un mese (il 28 marzo) 498 dei 779 posti letto disponibili in ospedale. Di questi, 92 pazienti sono stati ricoverati in terapia intensiva, 12 nell’area di terapia intensiva-subintensiva. Il 25 per cento dei medici, indipendentemente dalla loro specialità, è stato riallocato nella gestione dei pazienti Covid, cifra cresciuta fino al 70 per cento nel corso dell’epidemia. In questi mesi la maggior parte degli interventi chirurgici opzionali sono stati annullati e i medici hanno dovuto prendere difficili decisioni rispetto quali pazienti necessitavano un ventilatore, valutando caso per caso l’urgenza del trattamento e le possibilità di trarne beneficio. «Due delle 28 sale operatorie sono rimaste aperte senza sosta per urgenti interventi di chirurgia generale e cardiaca – prosegue l’articolo - e l’ospedale ha continuato a fornire servizi ambulatoriali non trasferibili. Dei primi 510 pazienti Covid confermati, il 30 per cento è morto. Dopo settimane di lavoro da parte di medici e infermieri, la mortalità ospedaliera totale è calata da una media di 17-18 decessi giornalieri (con un picco di 19) a 2 morti al giorno, un dato simile alla media di 2,5 vittime al giorno prima del Coronavirus».