L'accusa di ministri e reportage internazionali

È vero che gli sceicchi del Qatar sono finanziatori dell'Isis?

È vero che gli sceicchi del Qatar sono finanziatori dell'Isis?
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Quali legami ci sono tra una delle strisce di terra più ricche al mondo, il Qatar, e i terroristi dell’Isis che da mesi seminano terrore tra Iraq e Siria? La domanda sorge spontanea dopo l’escalation di violenza cui stiamo assistendo nel nuovo Califfato islamico, interpretata con armi e mezzi di cui in tanti si interrogano sull’origine e il finanziamento. Da tante parti si sospetta che quei soldi arrivino proprio dal piccolo emirato del Golfo Persico, casa di sceicchi che investono con gusto su prodotti tipicamente occidentali (si vedano gli acquisti di squadre di calcio, dei grandi magazzini Harrod’s e di alcuni brand di moda), ma, a detta di tanti, terra anche di finanziatori dei ribelli siriani e, in seconda battuta, anche di gruppi come Al Nusra e Isis.

Ad agosto l’accusa arrivò direttamente dal Ministro dello Sviluppo tedesco Mueller: «I soldati del califfo Abu Bakr al-Baghdadi vengono pagati dal Qatar». A lui però rispose il ministro degli esteri dell’Emirato, condannando «la barbara esecuzione del giornalista americano James Foley», spiegando poi che «il Qatar non supporta alcun gruppo di estremisti, incluso l’Isis».

 

 

Ma i dubbi restano, specie se si leggono i report di sicurezza battuti da più voci ancor prima dell’espansione dell’Isis in Iraq. A marzo fu il vicesegretario al Tesoro degli Stati Uniti, David Cohen, a puntare il dito contro il piccolo Paese mediorientale, forte di alcune fonti dell’intelligence Usa: «Donatori del Qatar raccolgono fondi per i gruppi estremisti in Siria, in particolare per Isis e al-Nusra. I loro versamenti sono calcolabili in centinaia di milioni di dollari». A ciò si aggiunge anche un documento reso pubblico da un’agenzia iraniana, di cui però ancora oggi si dubita sulla veridicità: è un testo dell’ambasciata del Qatar a Tripoli in cui si parla di 1800 volontari pronti a combattere in Siria dopo l’addestramento in campi libici.

Ma c’è di più, come racconta un lungo reportage apparso il 9 settembre sul New York Times. Il viaggio del giornale statunitense parte da un nome: lo sceicco Hajaj al-Ajmi, celebre per essere stato filmato, nel 2012 a Doha, mentre ammoniva una sala conferenze zeppa di ricchi investitori a non dare i soldi alla occidentalizzata Free Syrian Army, bensì di sostenere «chi si dà da fare per la jihad».

 

Zahra Aladhab

 

Il Qatar quindi finanzia i terroristi? In realtà la situazione è un po’ più complessa, come spiega Michael Stephens, ricercatore che lavora a Doha per i britannici del Royal United Services Institute: «Non intendo scusare il Qatar per ciò che ha fatto: è stato assai irresponsabile durante il conflitto in Siria, ma come altri Paesi. Dire che però il Qatar sostiene l’Isis è pura retorica». Piuttosto, sarebbe più giusto andare a guardare fino in fondo i comportamenti di questo piccolo emirato in politica estera, dove alcuni analisti vedono un intento a fare da aggregatore politico per tutto l’Islam, senza però il desiderio di costruire un fronte anti americano. Hamas, Fratelli Musulmani, ribelli libici: tanti degli eventi che hanno destabilizzato il Medio Oriente negli ultimi anni avevano dietro lo zampino qatariota, che però ha sempre usato misure indirette. Lo scopo è quello di guadagnare importanza nello scacchiere di un’area così complessa e, al tempo stesso, così ricca. Più preoccupanti, invece, sarebbero le iniziative di alcuni “fund-raiser”, come lo stesso al-Ajmi, che però sarebbero singoli individui senza alcun collegamento con lo Stato qatariota.

Ma forse più le settimane passano e più diventa chiaro chi siano realmente gli uomini dell’Isis, anche a questi potentati. E la paura cresce di fronte ai tanti proclami jihadisti che vorrebbero estendere anche alla penisola araba tutto il Califfato. Non è un caso se l’Arabia Saudita, altra nazione che nei mesi scorsi non si è sottratta dall’aiutare i ribelli siriani, ha annunciato che costruirà in tempi record una barriera sul suo confine con l’Iraq: 800 chilometri di filo spinato, torri di guardia, fibre ottiche e telecamere di sicurezza, oltre a migliaia di uomini appostati. Il deserto è enorme, ma ancor più grande diventa la paura di un’invasione jihadista.

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