La "Mappa dell'Intolleranza" di Vox

Quanto è attendibile la ricerca che definisce i lombardi razzisti

Quanto è attendibile la ricerca che definisce i lombardi razzisti
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Le parole possono far più male della violenza fisica, dice il sapere popolare. E oggi, attraverso la diffusione dei social network, di parole ne usiamo veramente tante. Purtroppo la necessità di concisione a cui ci costringono gli arcinoti 140 caratteri, non aiutano certo la moderazione e la capacità diplomatica. Succede così che sempre più spesso, proprio attraverso le parole diffuse nella rete, certe persone ricevano cazzotti verbali ben più dolorosi di quelli che si scambiano due pugili sul ring. Da questa presa di coscienza è partito lo studio, presentato a fine gennaio, dell’Osservatorio Vox sui diritti, intitolato “La Mappa dell’Intolleranza” e che ha identificato le zone del nostro Paese in cui l’intolleranza verso 5 categorie di persone (donne, omosessuali, diversamente abili, immigrati ed ebrei) è maggiormente diffusa. L’analisi ha emesso il proprio verdetto: la Regione più intollerante è, ahinoi, la Lombardia.

 

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La metodologia usata. La ricerca è stata condotta dall’Università degli studi di Milano, la Sapienza di Roma e l’Università di Bari, prendendo come campione 1,9 milioni di tweet, analizzati sulla base di un apposito software capace anche di tenere in considerazione l’uso di Twitter in relazione al numero di messaggi violenti. In circa un anno e mezzo di lavoro, otto mesi “sul campo” (social) e ore e ore di studio dei cosiddetti big data, si è tentato di rilevare il sentimento che anima le communities online, ritenute significative per la garanzia di anonimato che spesso offrono e per l’interattività che garantiscono. È un lavoro interessante, perché è la prima volta che in Italia si utilizzano i big data estratti da un social, in questo caso Twitter, per tentare di capire qualcosa in più della popolazione nel suo complesso, metodo già ampiamente usato, invece, Olteoceano.

Mappando i risultati, ovvero raccogliendo e geolocalizzando i tweet con i contenuti ritenuti sensibili dal software appositamente creato, si è potuto capire quali siano le zone dell’Italia più “bulle” nei confronti di quelle categorie di persone ritenute più deboli. Come precisano i ricercatori, per fare tutto questo è stato scelto Twitter, nonostante non sia il social più diffuso, per la possibilità che lo strumento offre nell’avere libero accesso a tutti i contenuti postati, ovviando al fatto che l’utente autorizzi l’estrazione e l’accesso all’intero flusso dei contenuti.

Lombardia razzista, misogina e omofoba. Osservando le mappe è possibile comprendere con facilità quali siano le zone più “calde”: il risultato è un’Italia polarizzata, con il Nord e il Sud che sono le aree maggiormente dure nell’uso delle parole e un Centro, invece, più moderato. Il triste primato, però, lo ottiene la Lombardia: secondo lo studi di Vox, la nostra Regione è quella più misogina (seguono Friuli, Campania, Puglia), razzista (seguono Friuli e Basilicata), omofoba e intollerante verso le persone con disabilità (seguita da Campania, Abruzzo e Puglia). Si salva giusto per quanto riguarda l’antisemitismo, più diffuso invece nel Lazio e in altre regioni del Centro.

Perché la Lombardia? Difficile rimanere indifferenti innanzi a questi risultati. Eppure, come spiega a Wired la professoressa Marilisa D’Amico, docente di Diritto Costituzionale all’Università di Milano e fondatrice di Vox, non è un dato così inaspettato. La Lombardia, infatti, è tra le Regioni che esprime maggiormente questa intolleranza, comunque molto diffusa in tutt’Italia, e la dimostrazione risiederebbe anche nella politica e nelle istituzioni locali: la recente approvazione della cosiddetta “legge anti-moschee” o la decisione di ospitare al Pirellone il discusso convegno sulla famiglia tradizionale sono solo due esempi di come la politica lombarda manchi, secondo la professoressa, di cultura della tolleranza. Un’opinione dura, ma che sarebbe confermata dai dati presentati nella ricerca.

Sono numeri attendibili? Per quanto la ricerca possa essere stata compiuta da personalità competenti, i dubbi sulla completezza di questi dati rimane. In particolare perché pare un po’ avventato far di tutta l’erba un fascio: si parla pur sempre di “soli” 1,9 milioni di tweet su una popolazione nazionale di 60 milioni di persone. Senza contare che se in Italia siamo ancora nell’anticamera dell’uso dei big data, in America, primo Paese ad amarli e usarli, siamo già alla fase successiva, ovvero quella della demitizzazione dei big data, ritenuti utili ma anche da utilizzare con attenzione e diverse cautele. A tutto questo aggiungiamo che dell’intera massa di tweet raccolti, solo un misero 3,4% è geolocalizzato e quindi riferibile ad una certa area di provenienza (attenzione, provenienza del “cinguettio”, non della persona che l’ha scritto). Come spiega Giovanni Semeraro, docente al dipartimento informatica dell’Università di Bari, sempre a Wired, i tweet discriminatori raccolti «sono stati poi normalizzati con il numero di tweet totale geoferenziati per quella zona geografica». I risultati, quindi, non riflettono il numero totale di tweet di odio, ma l’incidenza di questi sul totale, sempre in base a quel 3,4% geolocalizzato.

Da tutta questa analisi emergono due punti di criticità della ricerca, nient’affatto trascurabili: innanzitutto i dati raccolti, seppur si parli di 1,9 milioni tweet, sono assai esigui tenendo conto che quelli utilizzabili sono stati solamente il 3,4% del totale, ovvero 64.600; in secondo piano c’è anche il fatto che manca una correlazione esplicita, scientifica oseremmo dire, tra il campione preso in considerazione e la effettiva rappresentatività della popolazione locale. I risultati della ricerca, tenendo conto di questi due fattori, si possono senza dubbio definire aleatori. Resta il fatto che la ricerca abbia dimostrato come il web, purtroppo, sia un abile conduttore di odio e discriminazioni. Spesso ci dimentichiamo di quanto le parole possano far male.

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