Quelli che dicono: «Mi dispiace ma io non sono Charlie»
«Le numerose campagne di Charlie Hebdo contro i musulmani, l'islam, i simboli sacri di questa religione sapevano di accanimento. Faceva parte di una certa cultura molto diffusa negli ambienti che una volta erano stati di sinistra e che oggi sono solo sinistramente cinici». Così nel suo seguitissimo blog Karim Metref, algerino, immigrato in Italia nel 1998, oggi educatore a Torino, spiega il suo disallineamento rispetto allo slogano del momento: “Je suis Charlie”. Titolo del suo post: Mi dispiace, ma io non sono Charlie.
Metref ha vissuto sulla sua pelle la guerra civile in Algeria. «Me ne sono andato quando il conflitto stava calando di intensità. Gli anni più terribili furono quelli tra il 1993 e il 1996. Tre anni d'inferno». Scrive nel suo blog: «Sono triste perché alcuni dei vignettisti di Charlie Hebdo (Wolinski in modo particolare, che ho anche conosciuto ad Algeri un secolo fa) mi appassionavano e hanno accompagnato con la loro feroce e dissacrante satira tutta la mia adolescenza e i miei desideri di allora (ma anche di oggi) di andare contro il mondo. Ma mi dispiace, io non scriverò che sono Charlie Hebdo. Non metterò una bandiera nera sul mio profilo Facebook e non posterò nessun disegno di Charb e nemmeno di Wolinski che mi piace tanto».
Karim Metref non è il solo a disallinearsi. Anche tanti grandi giornali americani si sono opposti a pubblicare copertine di Charlie in cui veniva preso di mira il Profeta. Il New York Times, che nel suo organigramma ha un caporedattore che si occupa delle questioni etiche relative alla pubblicazione di determinate notizie, ha riferito di non pubblicare materiale «che intende offendere di proposito la sensibilità religiosa» di qualcuno. Così i giornalisti hanno deciso che descrivere semplicemente le vignette senza pubblicarle «può dare ai lettori elementi sufficienti per capire la notizia di mercoledì». Anche un quotidiano ebraico in lingua inglese Jewish Cronichle ha scelto di non pubblicare i numeri di Charlie con le vignette della polemica. Ma in questo caso la scelta è stata dettata da motivi di sicurezza. «Non voglio mettere a repentaglio la vita dei miei redattori», ha spiegato il direttore Stephen Pollard.
Tornando in Italia, anche Elena Loewenthal, scrittrice ebrea, commentatrice de La Stampa, ha voluto esprimere il suo disagio di fronte a questa uniformità di posizioni. «Io non sono Charlie. Non sono un vignettista. E magari neanche apprezzo l’irriverenza di Charlie. Ma rivendico il diritto di Charlie ad essere Charlie e per quello devo battermi, scendere in piazza, gridare sulla rete».
Mauro Biani è vignettista de Il Manifesto. Nel 2006, insieme a Vauro, fu l’unico della sua categoria a dissociarsi dalla scelta di pubblicare le vignette su Maometto. Riconferma quella sua posizione: «Ragionandoci oggi, penso che la cosa che mi dà fastidio è la satira che travalica in parodia. Per me è un trincea di umanità. La mia ricerca è “conquistare” chi mi vede e legge. Non mi interessa lo scontro».
Infine, va registrato lo straordinario successo di Dyab Abou Jahjah, scrittore libanese che ha creato l’hashtag #JeSuisAhmed. Ecco come lo spiega: «Io non sono Charlie. Io sono Ahmed, il poliziotto morto. Charlie Hebdo metteva in ridicolo la mia fede e la mia cultura e io sono morto per difendere il suo diritto di farlo». Il riferimento al poliziotto barbaramente ucciso con un colpo di grazia davanti alla redazione. Il suo Tweet ha avuto 24mila retweet.