Vita da pendolari

Ho ripreso il 7.02 dopo trent’anni E siamo ancora e sempre lì

Ho ripreso il 7.02 dopo trent’anni E siamo ancora e sempre lì
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Ore 6.50, salgo sul treno che partirà alle 7.02 per Milano Centrale. È già pieno. Soltanto, nella prima carrozza, ci sono ancora due posti, occupati da zaini e cappotti, ma zaini e cappotti non pagano il biglietto. «Posso accomodarmi?». Sì, certo. Il vagone è di quelli recenti, con due zone rialzate alle estremità e la parte centrale più bassa, a due piani. Uno schermo spiega stazione di partenza e di arrivo, fermate, indica la velocità del convoglio, l’eventuale ritardo. Mica male. Sono le 6.55, il treno è strapieno. Quelli che arrivano negli ultimi minuti si accomodano sui gradini della zona di ingresso, nell’area delle porte. Hanno facce imbambolate, stanche. Nessuno parla sul treno. Sono soprattutto giovani, diciamo una metà. Universitari. Nella mia parte di vagone ci sono sedute venti persone. Due leggono un libro, uno scrive, cinque consultano tablet o smartphone. Gli altri dormono. Nessuno parla.

 

 

Com'era trent'anni fa. E faccio un salto indietro: trenta anni fa. Il treno del mattino degli studenti era il 7.08, che poi ogni anno cambiava di un minuto o giù di lì. La mia memoria arriva fino al punto in cui nella composizione c’erano ancora quei vagoni con i sedili di legno, il riscaldamento elettrico sotto la panca. Il vagone era diviso in diverse isole. Ogni isola aveva due panche che si guardavano, tutte di legno, compreso lo schienale e sopra le testa c’erano il portabagagli e dal soffitto scendeva un bel lampadarietto di vetro satinato con la lampadina a incandescenza che faceva una bella luce gialla. Alle pareti c’erano persino quadretti con delle incisioni delle belle località italiane. Ai vetri erano appese delle tendine che potevi raccogliere e anche fare scorrere. Naturalmente i vetri potevano salire e scendere. Ma la cosa più stupefacente di tutte era che ogni “isola” del vagone aveva la sua porta. Per questo quelle carrozze venivano chiamate “Cento porte”. Ma noi li chiamavamo i treni del “far west”. E con i treni del “far west” trainato da un locomotore 6.46 si andava a Milano in un’ora (però in genere i convogli venivano fermati a Lambrate oppure venivano deviati per Porta Garibaldi. Ci fu un anno in cui praticamente nessun treno da Bergamo arrivava in stazione Centrale).

È cambiato qualcosa? È migliorato da allora il servizio? Per certi aspetti sì. Adesso si va a Milano Centrale in cinquanta minuti. I treni non hanno le panche di legno (ma neppure quei deliziosi lampadarietti. E nemmeno le cento porte) e si piccano di offrire pure l’aria condizionata. E ci mancherebbe: con i vetri piombati... però diciamolo: in estate era gran bello tirare giù il finestrino e mettere fuori la testa con il vento che ti strappava i capelli. All’epoca, i ritardi erano all’ordine del giorno. Oggi un po’ meno. Però a quel tempo i treni non venivano soppressi. Tecnologia più semplice, niente elettronica. Ma i treni, bene o male, partivano. Sovraffollamento? Direi uguale. E torno al presente.

 

 

Sovraffollamento e alienazione. Il Regionale parte regolare alle 7.02, dieci minuti dopo siamo a Verdello-Dalmine: e i passeggeri che salgono dove si metteranno? Lì all’ingresso, qualcuno in corridoio. Qualcuno si accomoda sui gradini che portano alla parte superiore. Tutti hanno la faccia stravolta. Si riparte. Il treno corre nella pianura, tocca i 145 orari. Nessuno parla. Penso che trent’anni fa non era così. Qualcuno dormiva, è vero, ma altri giocavano a carte, si metteva la valigetta sulle gambe e via di scopa e di briscola chiamata. Si parlava, si rideva e litigava. E poi via, di corsa in facoltà. Adesso non vola una mosca. Mi sembra di vedere quei film di fantascienza degli Anni Settanta che parlavano dell’alienazione del mondo futuro, sull’onda dei romanzi di Philip K. Dick e di John Brunner. Tutti con le facce da zombi, persi nel mondo irreale dei neurochip e delle droghe. Oggi siamo persi negli smartphone.

Gli abbonamenti. Andrea fa ingegneria, mi sta seduto davanti. Mi dice che il problema sono i treni soppressi, che in certi orari il posto non lo trovi, che d’estate i condizionatori funzionano un po’ come vogliono e a volte sparano aria gelida e a volte si rifiutano di funzionare. Ma non si lamenta nemmeno troppo del servizio, che tuttavia costa centodieci euro al mese per lui che è studente. Non poco. Sono circa mille euro all’anno, considerando le vacanze, sulla gobba delle famiglie. E non tutti sono ricchi. Andrea mi spiega che ormai non c’è distinzione fra l’abbonamento di uno studente e quello di un ricco professionista: sono sempre centodieci euro. Io credo che non sia possibile. E il diritto allo studio?

 

 

I treni soppressi. Dei treni soppresso invece dà notizia anche la stampa. Per esempio, giovedì 16 novembre ne sono stati soppressi undici, sei hanno avuto il percorso limitato (cinque dei soppressi erano per Bergamo) a causa di un guasto tra Rovato e Brescia. Mercoledì 15 un guasto della linea Carnate ha provocato ritardi di mezz’ora e più anche sulla Milano-Carnate-Bergamo. Il 9 novembre tre corse erano state soppresse, anche quella delle 7.16 da Bergamo per Porta Garibaldi...

Arriviamo. Sono le 7.25 quando vedo la prima luce dell’alba, sulla pianura. E alle 7.38 il sole è sorto, è una palla rossa come il fuoco all’orizzonte. Ormai siamo a Lambrate, nessun controllore si è fatto vedere, un venti per cento della popolazione del vagone scende. Salpiamo alla volta della Centrale dove arriviamo con puntualità. Ed eccoci qui, nel regno degli Italo e dei Freccia Rossa, con le destinazioni che lampeggiano e fanno sognare: Bologna in un’ora, Roma in tre ore, Genova, Napoli, Venezia, Firenze... il ricordo della bellezza, del viaggio. Ma siamo a Milano, un cappuccino sotto il Pirellone è comunque una piccola emozione.

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