Le salme dei soldati russi morti non si sa dove né come
Venerdì 12 settembre è stato pubblicato uno Special Report dell’agenzia di stampa Reuters, dedicato alle tecniche con cui il governo di Mosca tenta di coprire la partecipazione diretta di proprie truppe alla guerra in Ucraina e al contrasto all’operazione messo in atto da reporter e fotografi indipendenti o fedeli al governo di Kiev.
Non si tratta di forme nuovissime di disinformazione: molte di esse risultano impiegate non solo in tutti i conflitti recenti a partire dalla II Guerra Mondiale, ma anche in occasione di semplici azioni di controspionaggio. Quel che stupisce è, da una parte, la loro ripetitività, dall’altra la disistima della pubblica opinione che esse sottendono.
Tutto prende avvio dalla mancanza, sui certificati di morte dei soldati tornati a casa in una bara, del luogo e delle circostanze del decesso. Sul foglio matricolare della gran parte di loro è specificato soltanto che il reparto di appartenenza si trova in Cecenia, dove però, al momento, non sono in atto operazioni di sorta. Il primo caso è quello di Anton Tumanov, restituito alla madre Yelena con l’informativa che lo dà morto per ferite da proiettile a grappolo senza ulteriori specifiche, come ha notato il capo della commissione presidenziale per i diritti umani in zone di guerra, Sergey Krivenko. Yelena è stata messa in condizione di non poter essere raggiunta, ma una decina di commilitoni hanno raccontato al medesimo Krivenko e alla sua collega Ella Polyakova che Anton e altri compagni della 18esima compagnia fucilieri motorizzata appartenente all’unità 27777 dell’esercito russo sono morti il 13 agosto nel corso di uno scontro nei pressi della città ucraina di Snizhnye. Più precisamente, Anton è morto sul tavolo operatorio dell’ospedale in cui era stato trasportato per ferite da proiettili a grappolo. Il referto coincide: quel che non quadra è il fatto che ufficialmente la 27777 è di stanza a Grozny, in Cecenia.
Ma quella di Anton non è la sola morte che non quadra o, per meglio dire, che ricalca fedelmente la prassi messa in atto dalle autorità sovietiche per passare sotto silenzio gli inizi della I guerra cecena e quella in Afghanistan, quando oltre alle informazioni incomplete fornite ai familiari, venivano sistematicamente intimidite tutte le agenzie di stampa intese a confutare i bollettini del Cremlino.
E non solo: anche i compagni dei morti sono messi a tacere mediante la minaccia di venir considerati agenti del nemico. La stessa accusa rivolta alla commissione di Krivenko e della Polyakova a seguito della pubblicazione delle loro ricerche sui morti di Snizhnye. Gli appassionati di storie di disinformazione ricordano che lo stesso procedimento era usato dalla Wehrmacht negli ultimi mesi di guerra per evitare di consegnare al nemico preziose informazioni sulle perdite subite.
A dispetto di misure come quelle appena ricordate, le notizie delle incongruenze si sono diffuse in Russia a macchia d’olio anche perché - se i morti non possono parlare - i feriti sono comunque in grado di mettere insieme particolari dettagliatissimi circa località, tempi e modalità dei loro inconvenienti. Un tassista di Mosca, un certo Vitaly, ha raccontato a un cliente giornalista in incognito che suo figlio - la foto era sul cruscotto - era stato mandato in Ucraina nonostante prestasse servizio di leva e nonostante la legge vieti l’invio di militari di leva oltre confine. Vitaly ha aggiunto che i superiori avevano fatto di tutto per obbligare il ragazzo a “firmare” così da passare effettivo nell’esercito. Lui si era rifiutato, ma questo non gli aveva risparmiato l’ordine di portarsi in Ucraina e per di più con la divisa dei ribelli, cosa che aveva aumentato a dismisura le preoccupazioni del povero padre. Se valessero le leggi di guerra in una situazione simile, il fatto di trovarsi senza la divisa del proprio esercito espone infatti il soldato catturato alla possibilità di essere passato per le armi immediatamente, senza processo.
Oltre alle notizie diffuse dai parenti, è soprattutto la situazione logistica degli ospedali a far fede dei racconti dei feriti, trasportati nelle vicinanze di San Pietroburgo, Mosca e Rostov sul Don perché non ci sono più posti letto liberi sul confine ucraino. Il problema è diventato di dominio pubblico da quando i civili di quelle zone si vedono a loro volta rifiutati dai pronto-soccorso perché tutti i reparti sono occupati.
Il Cremlino sa bene che ai nostri giorni è difficile tacitare completamente il dilagare delle informazioni sgradite, e per questo prende tutte più una precauzioni possibili per evitare che, caduti nelle mani dei nemici o tornati a casa, i militari raccontino quel che non dovrebbero. Evitano il più possibile - per esempio - la presenza di contrassegni sui veicoli: Rolan, un altro dei combattenti a Snizhnye, racconta di essere stato inviato “contro i fascisti” di Kiev alla guida di un camion privo di targa. D’altra parte nemmeno il confine è più identificabile, perché tutti i cartelli segnaletici sono stati abbattuti. Ci si accorge di trovarsi in territorio nemico solo quando ci si è già penetrati di parecchi chilometri, osservando le insegne civili che sono, ovviamente, in ucraino e non in russo. Tutto il territorio percorso fino a quel momento è considerato Russia.
Le autorità di Mosca attribuiscono la diffusione di notizie come quelle appena riportate al lavoro della controinformazione. Ufficialmente in Ucraina non ci sono truppe russe. Ne consegue che tutto il materiale prodotto da fotografi e giornalisti che si aggirano nei campi di battaglia alla ricerca di testimonianze del contrario è ritenuto «privo di qualsiasi rapporto con la realtà». Appartengono a questo “fantasioso” collage di notizie anche servizi come quello del KievPost, in cui compaiono passaporti, carte di credito, documenti contenenti le regole d’ingaggio, matricole su armi da fuoco sempre e inconfutabilmente russi al pari di mezzi da trasporto abbandonati a seguito di un qualche scontro. Un servizio su Izvestija - il quotidiano dei sindacati russi - riportato su ilPost.it mostra bene anche il ruolo dei socialnetwork nello spread dei racconti di guerra. Il ritornello di Mosca è sempre lo stesso: è solo una messinscena, non siamo mai entrati in Ucraina. L’uso dei socialnetwork dev’essere fortemente ridimensionato. Cos’altro potevano dire, del resto?