Tragico epilogo

Si indaga sul suicidio in carcere di Federico Gaibotti dopo l'omicidio del padre

È probabile che la Procura apra un fascicolo per fare luce sull'accaduto. Mercoledì prossimo l'autopsia del trentenne

Si indaga sul suicidio in carcere di Federico Gaibotti dopo l'omicidio del padre
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È prevista per il prossimo mercoledì (16 agosto) l'autopsia sul corpo di Federico Gaibotti, il trentenne che - dopo l'omicidio del padre a Cavernago - si è tolto la vita giovedì 11 agosto in carcere. Un tragico epilogo, di cui ora si cerca di capire se esistano eventuali profili di responsabilità: è probabile che la Procura aprirà un fascicolo per fare luce sull'accaduto, come riporta L'Eco di Bergamo.

Federico Gaibotti si trovava nel carcere di via Gleno, a Bergamo, dal 4 agosto dopo aver confessato l'omicidio del padre Umberto al giudice Vito Di Vita. Già in quell'occasione aveva espresso pensieri suicidi: «Sono una nullità, non valgo più niente», aveva detto durante l'interrogatorio. Da tempo lottava contro tossicodipendenza e disagio psicologico.

Il 13 luglio aveva ricevuto una condanna a sei mesi di reclusione per violazione del domicilio della madre a Seriate e per lesioni e resistenza ai Carabinieri, poi sospesa dal giudice in seguito alla promessa del giovane di tornare sulla "retta via", come riportato da Corriere Bergamo. Quindi a fine luglio era entrato in una comunità di recupero, da cui se n'è andato dopo appena una settimana.

Federico voleva già suicidarsi

Il trentenne aveva già espresso più volte la volontà di togliersi la vita. Anche quel tragico pomeriggio di venerdì 4 agosto, quando era andato a casa del padre Umberto per prendere un iPad: doveva venderlo per ricavarne i soldi con cui comprarsi la cocaina, che lo avrebbe stordito prima del suicidio. Aveva anche rubato da un negozio di cinesi un coltello. Poi avrebbe chiesto al padre, pensionato di 64 anni, di aiutarlo a farla finita.

Così si era accesa una discussione, degenerata in omicidio per mano di Federico che ha più volte accoltellato il padre. Dopo l'interrogatorio, in cui ha ricostruito i fatti, era stato accompagnato in Pronto Soccorso al Papa Giovanni di Bergamo e poi ricoverato nella camera blindata - come previsto in caso di ricovero di pazienti in stato di restrizione della libertà - per quattro giorni, durante i quali era stato rivalutato e gli era stata imposta una terapia farmacologica.

Il trentenne «non necessitava di ulteriori cure in regime ospedaliero per acuti - ha fatto sapere l'ospedale in una nota - avendo così indicazione a rientrare nella struttura detentiva per proseguire l'osservazione». Una volta in carcere, come confermato da Corriere Bergamo, avrebbe dovuto proseguire le terapie seguendo le procedure che di norma vengono adottate «in caso di aumentato rischio suicidario». E infatti, Federico era stato inserito in cella con un detenuto "selezionato", scelto appositamente affinché lo controllasse.

Gli erano stati levati anche tutti gli oggetti che potessero servirgli a compiere l'atto estremo, come lacci, cinture e lenzuola. Nonostante le precauzioni, il trentenne si è suicidato: mentre si trovava in bagno si è stretto la felpa intorno al collo. Il detenuto in cella con lui, non vedendolo rientrare, è andato a controllare e l'ha trovato così privo di vita, dando quindi l'allarme.

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