Dopo innumerevoli tentativi falliti per mettere fine a una guerra che da quando è scoppiata, quasi cinque anni fa, ha provocato oltre 250mila morti, ieri notte l’Onu ha trovato un accordo per il futuro della Siria. Il Palace Hotel di New York è stato teatro della riunione dell’International Syria Support Group, Issg, un gruppo composto dai ministri degli Esteri di 17 Paesi che durante gli incontri del Processo di Vienna si è proposto di delineare una road map per far uscire il Paese mediorientale dal conflitto.
Cooperazione tra Usa e Russia. La grande novità è che sullo sfondo del vertice è stata delineata una inedita cooperazione tra Stati Uniti e Russia, chiave che potrebbe scongiurare un ennesimo fallimento. Perché tutte le altre risoluzioni, intese, accordi, ipotesi, finora erano state sempre bloccate dalle divergenze tra Washington e Mosca: i primi, insieme all’Europa, hanno sempre spinto per la destituzione di Assad, mentre il Cremlino ne è sempre stato alleato. Adesso sembra che si stia delineando un cambio di passo da entrambe le parti, anche se decisivo è stato il fatto che il summit di New York «non era su Assad, ma sul cercare di trovare un’opposizione accettabile per i negoziati e un accordo sulla lista dei gruppi terroristici», come ha dichiarato il ministro degli esteri russo Sergeji Lavrov.
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Cosa prevede l’accordo, a grandi linee. L’Issg è capitanato sì da Usa e Russia ma composto anche dalla Lega Araba e dall’Unione Europea, oltre a nazioni che hanno interessi diversi nella regione come Arabia Saudita, Turchia e Iran. I 17 Paesi hanno concordato su un testo di risoluzione per una transizione politica a Damasco, le cui trattative dovrebbero cominciare a gennaio. A mediare tra il governo di Damasco e i ribelli ci sarà il rappresentante speciale dell’Onu per la Siria, Staffan de Mistura, e l’obiettivo è giungere entro sei mesi alla costituzione di una «governance credibile, inclusiva e non settaria» del Paese. Entro 18 mesi, inoltre, si dovrebbe arrivare a elezioni libere.
Pace duratura, ma la strada è ancora lunga. L’obiettivo è quello di arrivare a una transizione politica per una pace duratura, in una via che per Obama è chiara. Lui stesso ne ha parlato nel corso della conferenza di fine anno, fermo sulla sua posizione nei confronti di Assad («deve andare via»), e aggiungendo: «Non ci può essere pace in Siria finché non ci sarà un governo riconosciuto come legittimo dalla maggioranza del Paese». Tuttavia, nonostante gli ottimismi per l’accordo, la strada è ancora in salita. Non appena sono stati resi noti i dettagli sulle tempistiche, Najib Ghadbian, il rappresentante presso l’Onu del Consiglio nazionale siriano (Cns), forza di opposizione al presidente Bashar al-Assad con sede in Turchia, ha dichiarato che sarà necessario «almeno un mese, più o meno» per preparare i colloqui con il regime e stabilire una tregua in Siria. Al centro del discorso di Ghadbian viene evidenziato che affinché nel Paese si possa cominciare a parlare di pace le armi devono tacere. Anche quelle della Russia, dato che «gli attacchi russi continuano a colpire tutti ad eccezione dello Stato Islamico».
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Chi siederà al tavolo delle trattative? Uno dei punti di più difficile risoluzione per il raggiungimento dell’accordo è stato lo stilare la lista di chi si dovrà sedere al tavolo delle trattative. Se da un lato il governo Assad, piaccia o no, è un’entità reale e univoca, non è così per chi a lui si oppone. La galassia dell’opposizione al regime in Siria è talmente vasta che è molto difficile individuare quali sono gli interlocutori credibili e quali invece quelli con derive terroristiche. Il difficile compito di distinguere tra terroristi e opposizione è stato affidato alla Giordania.
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Lo spinoso nodo Assad. Ma il nodo più difficile da sbrogliare è relativo al futuro di Assad, la cui permanenza in sella al governo di Damasco è considerata da molti un ostacolo alla riconciliazione e alla pace. A gennaio, con l’inizio delle trattative, si dovrebbe cominciare a parlare anche di questo. Il che significa che il destino di Assad verrà affidato al processo politico-diplomatico, e che l’attuale presidente siriano potrebbe anche ripresentarsi alla elezioni del 2017. Nel testo dell’accordo, infatti, il presidente non viene mai espressamente citato. La cosa fa felice i suoi sostenitori, ma al tempo stesso fa imbufalire i detrattori. Primi tra tutti i francesi, che per bocca del ministro degli Esteri Laurent Fabius, hanno fatto sapere che non è pensabile che Assad si presenti alle elezioni.