Nel 2017 la dead line

Stop soldi pubblici ai partiti Ma alcuni ci provano ancora

Stop soldi pubblici ai partiti Ma alcuni ci provano ancora
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L'infinita polemica legata al tema del finanziamento pubblico ai partiti sembrava aver trovato finalmente requie al tempo del Governo Letta, quando proprio durante i suoi ultimi giorni di vita l'esecutivo varò una legge che avrebbe previsto l'abolizione del denaro statale diretto alle casse delle forze politiche. Un piano, nello specifico, che verrà completamente attuato solo nel 2017, ma che nel frattempo ha già iniziato a prevedere una graduale diminuzione del finanziamento, di anno in anno: nel 2014 infatti, i fondi erogati ai partiti sono stati tagliati del 25 percento, nel 2015 del 50 percento, in questo 2016 del 75 percento, fino alla dead line, appunto, del 2017. A controbilanciare, oltre alle consuete donazioni private, un partito potrà contare sull'eventuale scelta di un cittadino di destinargli il suo 2 per mille in sede di dichiarazione dei redditi, oltre che ad altri vari benefici di natura fiscale. Eppure, nonostante queste regole in vigore, c'è ancora qualcuno che tenta qualche colpo di coda in extremis, al fine di garantirsi soldi che nemmeno gli sarebbero dovuti. È il caso delle nuove formazioni politiche di Pippo Civati e Flavio Tosi, e della lista civica di Maroni.

 

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I tentativi (vani) degli scissionisti. Da un punto di vista meramente economico, fino a poco tempo fa, organizzare una scissione dal proprio partito di riferimento poteva essere una vera e propria manna, in termini di ottenimento di finanziamento pubblico: era sufficiente ottenere un 1 percento alle elezioni oppure, se già si era in Parlamento, creare una nuova componente facente capo al Gruppo Misto ed ecco che lo scrigno dei fondi statali veniva prontamente aperto. Una prassi che la nuova legge sull'abolizione del finanziamento ha giustamente soppresso (al di là delle valutazioni più generali circa l'opportunità di una scelta del genere che, a ben pensarci, lascia le forze politiche in ostaggio di quei privati che garantiscono i soldi affinché queste possano vivere), come stanno scoprendo alcuni scissionisti dell'ultima ora.

Parlando, per esempio, di Pippo Civati e della sua nuova formazione di sinistra Possibile, nata dall'addio di alcuni parlamentari al Pd, o di Fare!, il nuovo soggetto creato dal sindaco di Verona Flavio Tosi in seguito al saluto dato da quest'ultimo alla Lega, emerge come ormai sia davvero difficile superare le barriere burocratiche legate alla concessione di denaro statale. In primo luogo, né Possibile né Fare! sono iscritte al registro nazionale dei partiti, non possedendo uno statuto ovvero la condizione basilare per essere considerati appunto un partito, e questo già di per sé le escluderebbe dalla possibilità di ricevere finanziamenti. In secondo luogo, nessuna delle due formazioni si è presentata alle ultime elezioni, altro elemento ostativo. Tosi, infine, nemmeno ha una rappresentanza parlamentare, al contrario di Possibile. Eppure, sia gli uni che gli altri sono mesi che operano pressioni sulle commissioni ad hoc al fine di strappare qualche euro dalle casse statali, nonostante la mancanza di tutti i vari requisiti. Ma parrebbe davvero che per la politica il tempo delle vacche grasse sia davvero finito.

 

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Il caso di Maroni. Tutti coloro che possiedono un minimo di memoria politica, ricorderanno bene come Roberto Maroni, attuale governatore della Lombardia, fosse stato ai tempi uno dei principali sostenitori della legge per l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Fa dunque piuttosto strano assistere a come il numero uno del Pirellone abbia, invano, tentato di accedere alle casse statali senza nemmeno presiedere un partito, ma addirittura semplicemente attraverso la lista a lui intitolata (Maroni Presidente). Lo storico leader della Lega avrebbe chiesto non solo finanziamento pubblico, ma persino una fiscalità agevolata e l'accesso alle donazioni private con detrazioni al 26 percento. Di tutta risposta, la commissione di garanzia ha relegato la lista di Maroni in una sorta di black list dei furbetti della politica italiana, facendo notare al presidente lombardo come sia piuttosto curioso che è una forza politica non presente in Parlamento faccia richiesta di sussidi per il momento riservati solo a coloro che in Parlamento effettivamente ci sono. Una faccenda che, tutto sommato, un sorriso lo strappa.

Il business che fu. D'altra parte i partiti politici ben ricordano che vero e proprio business fosse la faccenda del finanziamento pubblico, specie in zona elezioni: partecipare alla corsa elettorale nazionale, infatti, comportava un guadagno netto rispetto a quanto speso anche del 20 percento. Secondo i dati della Corte dei Conti relativi alle elezioni politiche del 2013, le 87 formazioni partitiche che scesero in campo in quell’occasione ottennero dallo Stato circa 54 milioni di euro, che andarono ad aggiungersi a 47 milioni comprensivi di fondi già posseduti e donazioni private. E si trattava già di un robusto taglio rispetto, ad esempio, alle politiche del 2008, dove i rimborsi da parte dello Stato nei confronti dei partiti arrivarono addirittura a 110 milioni di euro.

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