Serve il sì del congresso

Stanno per chiudere Guantanamo (O almeno così vorrebbe Obama)

Stanno per chiudere Guantanamo (O almeno così vorrebbe Obama)
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Lo aveva promesso fin dalla sua prima elezione a Presidente degli Stati Uniti, nel 2008, ne ha ribadita l’intenzione in tutti questi anni, nonostante le forti pressione contrarie del Congresso, e ora sembra essere ad un passo dalla riuscita: Barack Obama dovrebbe finalmente essere in procinto di chiudere definitivamente il carcere di massima sicurezza di Guantanamo. Si tratta, come noto, di un campo di prigionia inserito all’interno della base militare Usa di Guantanamo, a Cuba.

 

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Già, Cuba: la profonda svolta che i rapporti fra Washington e L’Avana hanno subito negli ultimi mesi sono senza dubbio una carta importante che Obama si può giocare nella partita per la chiusura del carcere: sarebbe, infatti, un’ulteriore prova della fiducia che gli Stati Uniti intendono manifestare nei confronti dell’isola caraibica in questo periodo. A breve, il 14 agosto, il Segretario di Stato John Kerry sarà in visita a L’Avana, ed era dal 1945 che una così alta carica a stelle e strisce non metteva piede sul suolo cubano. Sarebbe davvero un bel jolly presentarsi con i documenti di chiusura di un luogo che dagli alti gradi dell’isola centramericana non è mai stato digerito, essendo stato da sempre visto come una vera e propria ingerenza territoriale da parte di Washington. Ma sarà tutt’altro che semplice convincere il Congresso a dare il via libera.

 

 

La pessima fama di Guantanamo. Ad oggi, nei suoi due distinti bracci (Camp Delta e Camp Iguana), Guantanamo ospita, se così si può dire, 116 detenuti, pochissimi se si considera che nel 2003 erano ben 650. Un aspetto che pone una prima questione di ordine economico: ha senso spendere 100 milioni di dollari l’anno per una struttura la cui funzione può essere tranquillamente espletata da altre carceri a prezzi infinitamente minori? Tenendo conto che la chiusura di Guantanamo complessivamente dovrebbe costare all’incirca 80 milioni di dollari, ecco che, anche solo da un punto di vista puramente economico, sarebbe un vero affare, ampiamente ammortizzato in un solo anno.

In secondo luogo, agli occhi del mondo sarebbe un gesto apprezzato, quello della chiusura del campo di prigionia: dimenandosi fra leggenda e realtà, sono numerosissime le voci circolate fin dall’apertura di Guantanamo (che avvenne in seguito ai fatti dell’11 settembre 2001) a proposito degli abusi e delle tecniche di tortura disumane perpetrate nei confronti dei detenuti. Già nel 2002, a nemmeno un anno dall’apertura, l’allora Alto Commissario dell’Onu per i Diritti dell’Uomo Mary Robinson aveva avuto modo di denunciare gli Stati Uniti per le barbare usanze in vigore a Guantanamo, richiamo seguito da diverse sentenze di condanna arrivate addirittura dalla stessa Corte Suprema americana. Basti pensare che a Guantanamo è frequente l’utilizzo del waterboarding, una particolare e atroce forma di tortura che consiste nel dare al detenuto la sensazione di annegare: trattasi, naturalmente, di una pratica bandita da qualsiasi dichiarazione legata ai diritti umani, e che attualmente è praticata, in maniera nota, solo dall’Isis. Infine, giova segnalare anche come i carcerati di Guantanamo non siano considerati prigionieri di guerra ma nemmeno detenuti ordinari, cosa che li priva di qualsiasi tipo di diritto, anche dei più elementari.

 

 

Il piano di Obama. Ecco perché quando nel 2008 Obama si accingeva a varcare la soglia della Casa Bianca, una delle sue prime promesse fu la chiusura di Guantanamo. Ci provò ufficialmente già nel 2009, ma il Congresso, la cui approvazione è necessaria, bocciò la proposta con soli 6 voti favorevoli e ben 80 contrari. Oggi le cose sono cambiate, visti i pochi detenuti rimasti e le nuove frontiere diplomatiche con Cuba. Obama ha dichiarato di essere ormai ai dettagli del piano per dire addio all’esperienza di Guantanamo, ma i nodi da sciogliere sono ancora tanti.

A cominciare dal fatto che, scrive il New York Times, 69 dei suoi detenuti sono yemeniti, e con la situazione di caos in cui versa attualmente lo Yemen non è opportuno rimpatriarli. Molti esponenti politici di Washington, però, si oppongono tuttavia alla loro eventuale detenzione sul suolo degli Stati Uniti. Dove spedirli, dunque? La patata bollente è fra le mani di Ash Carter, Segretario alla Difesa, che pare che giusto la settimana scorsa abbia ricevuto un ultimatum di 30 giorni per definire in ogni dettaglio il piano di trasferimento dei carcerati, e dunque l’avvio delle pratiche di chiusura. Se Carter dovesse farcela ad avere l’intuizione giusta, e se il Congresso dovesse finalmente mostrarsi favorevole, entro brevissimo tempo si potrà assistere al definitivo addio ad un posto che, diciamocelo, getta vergogna su tutto il genere umano.

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