Un'analisi scientifica

Che succede a livello caratteriale a chi ha perso (e cerca) lavoro

Che succede a livello caratteriale a chi ha perso (e cerca) lavoro
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Che la nostra personalità fosse un mix di temperamento, ossia di un componente che geneticamente non muta perché ereditata da mamma e papà, e di una parte caratteriale plasmata invece dall’esperienza e dalle pressione o da mutazioni ambientali, si sapeva già. Fin dai tempi di Ippocrate, che distinse ben quattro modalità caratteriali. Ma una novità c’è ed è recente: sembrerebbe che fra i componenti che possono influire su quella parte plastica del nostro Io, il carattere appunto, inciderebbe anche la disoccupazione. Un moderno fattore di rischio, noto a una parte ai più, che arriverebbe perfino a mutare alcuni tratti e qualità. Lo ha spiegato uno studio dell’Università di Sterling in Gran Bretagna e pubblicato sul Journal of Applied Psychology.

 

 

Che succede a chi cerca lavoro. Anche il lavoro ha la sua parte sullo stato umorale: quando c’è ci si lamenta perché le responsabilità e gli impegni stressano. E quando manca, fatto molto più frequente e probabile di questi tempi, manda in tilt i nostri meccanismi caratteriali: fin dai primi albori, ossia dal momento in cui ci si mette alla ricerca di una occupazione che possa ridare il gusto di uno stress produttivo e di una giornata occupata. Perché le ore passate al pc a spulciare annunci sui siti dedicati, a scriverne di nuovi da lanciare nelle sezioni ‘offresi’ qualsiasi cosa, o ancora a predisporre e aggiornare curricula europei inviandoli a raffica a tutte le aziende dell’ambito di competenza, fino ai colloqui da una ad un'altra agenzia interinale o di ‘head hunter’, indurrebbe un cambiamento di alcune nostre caratteristiche acquisite, caratteriali appunto.

Di quelle migliori; prime fra tutte la disponibilità alla precisione, alla meticolosità e alla franchezza: di tutti quei tratti cioè che sono requisiti essenziali per trovare un nuovo impiego. Ciò non si verifica sempre, naturalmente, o non da subito; quando però questa ‘disoccupata’ ricerca dura a lungo sembrerebbe che queste capacità a poco a poco si assottigliano. Come a dire che l’astinenza dall’uso le manda in letargo o nel dimenticatoio come inutili. Con una importante conseguenza: la difficoltà a dimostrarsi poi, al momento opportuno, all'altezza di un colloquio professionale.

E a chi l’ha peso da un po’. Insieme a questa incapacità di sentirsi in, subentrerebbe poi un nervosismo che fa sentire del tutto out. Questo passaggio sembrerebbe un dato di fatto, attestato da uno studio inglese che ha preso in considerazione un campione di oltre 6,769 tedeschi (in particolare 3,763 uomini e 3,003 donne), di cui 210 senza lavoro, analizzando le variazioni di meticolosità, nervosismo, disponibilità, estroversione e franchezza in funzione della presenza o assenza di una occupazione.

 

 

Sebbene i risultati fossero attesi, ovvero che se il lavoro manca aumentano stress e tensione, ciò che ha sorpreso è il fattore tempo, che influenzerebbe in maniera diversa i due sessi, inducendo più rapidamente le donne a cambiare carattere. I ricercatori avrebbero infatti dimostrato che mentre gli uomini diventano "meno piacevoli" (ovvero più nervosi) dopo due anni dal bighellonaggio forzato, alle donne sarebbero sufficienti soltanto dodici mesi per perdersi d'animo e tendere al negativo. Precisione e puntualità, invece, inizierebbero a vacillare tra gli uomini di pari passo con le giornate vuote e inconcludenti.

Le conclusioni. Non sarebbe dunque solo una questione economica; pare infatti dai risultati dello studio che la disoccupazione sia causa di forti implicazioni psicologiche e relazionali per chi la subisce (e questo è facilmente immaginabile) ma soprattutto che questo peso psico-emozionale è più sensibile di quanto si potesse pensare. E così i ricercatori invitano a correre ai ripari, perché essa può svolgere un ruolo chiave nella prevenzione dei cambiamenti di personalità nella società. Come? Offrendo maggiore sostegno per i disoccupati o attivando misure cautelative per riportare i tassi di disoccupazione a livelli più bassi. E questa seconda ipotesi è certamente la preferita.

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