Da un articolo del NYT

I suicidi nelle università americane Quanto fa male volersi perfetti

I suicidi nelle università americane Quanto fa male volersi perfetti
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Un articolo del New York Times s’interroga sul preoccupante fenomeno che, con un lento ma costante incremento, si registra nelle università del Nord America: la drammatica decisione di ragazzi che, sotto la pressione di un sistema scolastico, sociale e familiare (spesso tutte e tre le cose insieme), decidono di togliersi la vita. A partire dal 2007, nella fascia d’età 15-24 anni, i suicidi sono passati dai 9.6 per 100mila persone agli 11.1 del 2013. Un sondaggio nazionale effettuato l’anno scorso da Robert P. Gallagher dell’Università di Pittsburgh, e sponsorizzato dall’American College Counseling Association(ACCA), cioè l’associazione Americana che si occupa del sostegno psicologico per gli studenti universitari, ha rivelato che più della metà degli studenti interrogati ha problemi psicologici, con un incremento del 13 percento avvenuto nel giro di due anni. Stando a quanto riportato dal Center for Collegiate Mental Health di Penn State, ansia e depressione (in questo ordine) sono oggi i disturbi psicologici più diffusi tra gli studenti.

[L'università di Pennsylvania]

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Il prestigio e il peso della perfezione. Nel giro di 13 mesi, 6 studenti dell’Università di Pennsylvania – una delle università più prestigiose degli Stati Uniti, facente parte della cosiddetta Ivy League, cioè la rosa delle otto università Americane che si distinguono per eccellenza accademica, prestigio e selettività, tra cui figurano anche Harvard e Yale – si sono tolti la vita. Dopo il suicidio di una studentessa, l’università ha creato una task force per esaminare il problema della salute mentale nel campus. Nel loro report finale, pubblicato quest’anno, è emersa la necessità di potenziare la sensibilizzazione al problema, nonché di rinforzare i servizi di assistenza (in questa direzione è stata introdotta un’apposita linea telefonica). Un aspetto chiave da combattere, stando a quanto emerso dall’indagine, è il fenomeno della così detta Penn Face (cioè la faccia da tenere a Penn, abbreviazione di Università di Pennsylvania). Questo fenomeno si riferisce ad una strategia sociale adottata dagli studenti: quella di mostrarsi felici anche quando si è tristi o stressati.

L’articolo del Nyt sottolinea come, nonostante la definizione Penn Face si applichi a quella particolare università, il fenomeno che designa è tristemente diffuso anche altrove. All’Università di Stanford, in California, un’altra delle più celebri e prestigiose università statunitensi, il fenomeno si chiama Duck Syndrome (cioè la sindrome dell’anatra), e designa l’ideale di perfezione rincorso da molti studenti che si compone di intelligenza, traguardi, salute, bellezza e popolarità – il tutto idealmente raggiunto senza mostrare alcuno sforzo. Come, appunto, un’anatra: calma sulla superfice dell’acqua, mentre sotto agita le zampe senza sosta. «Nessuno vuole essere quello che fa fatica mentre tutti gli altri ce la fanno. Nonostante tutto quello che ti succede – lo stress, qualche accenno di depressione, la sensazione di sentirsi “sovraccaricato” – tu vuoi metterci davanti una facciata di positività», dice uno studente di Penn al giornale. Il sovrammenzionato report descrive come gli studenti provino «un’enorme pressione che può manifestarsi come demoralizzazione, alienazione o come condizione psicologica quali ansia e depressione».

[Una performance di sensibilizzazione del gruppo Active Minds:
1100 zaini abbandonati per rappresentare il numero di studenti che si sono uccisi l'anno scorso]
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Nel 1954, lo psicologo sociale Leon Festinger, postulando i principi della Teoria del Confronto Sociale (secondo la quale, in poche parole, atteggiamenti e opinioni individuali sono valutati in base alla realtà sociale), aveva affermato che nel mondo contemporaneo il nostro valore viene determinato dal “grado di separazione” tramite cui ci stacchiamo dagli altri, ci “eleviamo” rispetto a loro. Il Nyt afferma che «La questione esistenziale perché sono qui? è oggi seguita dalla confondente domanda come lo sto facendo?». Continua la giornalista: «Nell’era dei social media, i confronti si svolgono con grande cura su uno schermo che non fornisce mai il quadro completo. I dispositivi mobili intensificano i confronti, che passano dallo stato di occasionale a quello di quasi costante». Gregory T. Eells, direttore dei servizi di assistenza psicologica all’Università di Cornell, pensa che i social media contribuiscano a rafforzare l’idea (sbagliata) che i tuoi pari non si stiano sforzando. Quando vede gli studenti in un contesto sociale, e tutti appaiono felici e contenti, Eells dice: «Mi guardo in giro e penso, quel ragazzo è appena andato in ospedale. Quella persona ha un disturbo alimentare. A quello studente sono appena stati prescritti degli antidepressivi. Da terapeuta, so bene che nessuno è felice o “cresciuto” come invece sembra visto da fuori».

I ragazzi non sanno fallire. Il Dr. Anthony L. Rostain, psichiatra di facoltà a Penn, spiega che la vergogna – frutto del fatto di non sentirsi bravi abbastanza – è il sentimento dominante del drammatico processo. «Non è che uno non stia facendo bene. Ma è quella sensazione del dirsi “non sono bravo”. Invece che pensare “ho sbagliato in qualcosa”, questi studenti pensano “sono un fallimento”», dice lo psichiatra. L’articolo del Nyt continua spiegando che questo aspetto culturale dell’America, definito “iperrealizzazione”, è già combattuto da un decennio, ma il recente tasso di suicidi ha riacceso di recente il dibattito. Un titolo dell’Huffington Post, a Marzo, citava: «Nel nome del College! Cosa stiamo facendo ai nostri figli?». L’articolo prosegue affermando che «queste dinamiche culturali di perfezionismo ed eccessiva indulgenza hanno creato degli adolescenti ultra-concentrati sul successo, ma che non sanno come fallire». Alcuni ricercatori puntano il dito contro le aspettative dei genitori, come ad esempio la famosa psicologa Alice Miller (autrice del libro Il Dramma del Bambino Dotato, 1979, tradotto in più di 30 lingue), che spiega come alcuni bambini molto sensibili possano essere così soggetti alle aspettative dei genitori da voler fare di tutto per soddisfare quelle aspettative – a costo di pagare il prezzo della loro salute personale. Questo processo viene definito dalla psicologa «una tragica perdita del sé nell’infanzia».

Qualcosa sta cambiando. La Penn University ha cominciato ad introdurre qualche novità. Per esempio Pennsive, un blog dove gli studenti sono invitati a parlare liberamente di salute mentale, oppure (molto carina) l’idea degli ugly selfie (cioè i selfie brutti), dove si cerca di invertire il trend di Instagram e Facebook per cui si vuole presentare costantemente un’immagine esteticamente gradevole di se stessi. Qualcosa sta cambiando, e ci auguriamo che l’allarmismo di questi tempi possa realmente trasformarsi nella nascita di un movimento vivo e realmente “rivoluzionario”, cioè capace di sovvertire quelle regole implicite che dominano il sistema universitario così come gran parte del mondo del lavoro contemporaneo.

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