Dalle mostre ai marchi

Tutti quanti amano la street art

Tutti quanti amano la street art
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Anche la ribellione viene assimilata dal business. Nell’ambito della musica rock si potrebbe fare l’esempio del punk: nato per dar voce a una generazione scontenta e vessata, fu ben presto inglobato nel sistema commerciale delle rock star e svuotato dei suoi contenuti politici. Nell’ambito delle arti figurative è avvenuto qualcosa di simile per i murales e la street art: un tempo erano emblemi della controcultura, del dispetto, del rifiuto verso la società, oggi sono amati e celebrati nei musei, ma non solo. Quest’arte viene ormai frequentemente utilizzata dalle amministrazioni locali e dalle industrie come metodo di riqualificazione di quartieri o capannoni; persino due grosse società come Enel ed Eni hanno assunto dei writer per eventi o per far lievitare il prezzo di alcuni immobili.

 

La mappa di tutti gli interventi di Pigmenti (street art) nella città di Bergamo.

 

È ancora street art? La soglia è sottile e si supera facilmente. Ha senso parlare ancora di street art se i murales perdono la loro vocazione originaria, scomoda e provocatoria? Il 18 marzo a Bologna prende il via una grande mostra, Street Art — Banksy & Co, la prima grande retrospettiva sulla storia di questa arte. I murales sono stati prelevati dalle strade per finire nella sale di Palazzo Pepoli, non senza polemiche da parte di chi pensa che così facendo si perda il significato vero delle opere. «Siamo a un punto in cui bisogna fare una riflessione sulla street art in sé perché, nata come arte illegale, ha oggi perso questa sua natura ed è come se, in un certo senso, avesse negato se stessa», osserva Sabina De Gregori, esperta di linguaggi contemporanei e autrice del libro Banksy il terrorista dell’arte.

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La passione degli imprenditori. La questione resta aperta, ma di certo non frenerà l’espansione di questa arte per scopi non propriamente artistici. Gli industriali e i brand più affermati hanno ormai messo le mani su questo scrigno di gioielli. Per esempio, Vincenzo Boccia, presidente di Arti Grafiche Boccia spa e candidato alla leadership di Confindustria, ne è un grande appassionato. La sua azienda tipografica è stata svecchiata con un progetto di street art, che ha visto spuntare nove gigantesche B sulla facciata esterna del capannone di Salerno. Stessa scelta per i Fratelli Branca Distillerie a Milano o per la Ceres (qui sopra la gallery della collaborazione con Inward) a Torino e a Pomigliano. Anche Louis Vuitton ha abbracciato quest’arte. L’osservatorio Inward ha lanciato in questi giorni #StreetArt-Factory per portare questa arte dentro industrie, fabbriche, cantieri e aziende di tutto il paese. «Ormai nei consigli di amministrazione — spiega il presidente Luca Borriello — quello che un tempo veniva visto come un fenomeno negativo inizia a essere accolto con interesse anche perché in tempi di crisi, nei quali girano pochi soldi, ricorrere alla street art paga». Ma non tutti gli artisti sembrano favorevoli: «La collaborazione con i grossi brand mi sembra più una mercificazione dell’arte» afferma Lex, artista italiano.

 

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La street art a Tor Marancia, Roma. 

 

Riqualificazione e polemiche. Non solo le imprese, anche le amministrazioni comunali si sono innamorate di quelli che una volta erano considerati brutti graffiti. Oltre 200 comuni in Italia aderiscono a 15 festival di street art. Vengono affittati muri e riqualificati quartieri. A Roma questa pratica ha dato buoni frutti a Tor Marancia e a San Basilio. Da questo punto di vista la street art sembra tornare davvero utile, anche perché fa aumentare il valore degli immobili. Il Centro per lo Studio della Moda e della Produzione culturale dell’Università Cattolica di Milano ha stimato intorno al 20 percento l’aumento. Ma se il writer è celebre può aumentare molto di più: alcuni edifici di Bristol e Londra firmati da Banksy si sono apprezzati per decine di migliaia di sterline. Alcuni si ribellano di fronte a questa mercificazione e normalizzazione: ad esempio l’italiano Blu nel 2014 ha cancellato le sue opere Brothers e Chain presso Berlino, per manifestare la sua contrarietà al progetto di conversione dell’area in cui sorgevano.

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