I veleni della Pinacoteca di Brera Tutta colpa di un Caravaggio?

In copertina, foto del Corriere della Sera.
Caravaggio è ancora un artista esplosivo. Lo dimostra quando sta accadendo in uno dei più autorevoli musei italiani, la Pinacoteca di Brera a Milano. Lunedì sulla prima pagina della cronaca milanese del Corriere della Sera esce la foto con la notizia che un quadro attribuito al grande lombardo e ritrovato lo scorso anno a Tolosa, in Francia, verrà esposto per la prima volta proprio a Brera a fianco della Cena in Emmaus, capolavoro autografo che fa parte delle raccolte del museo milanese.
Giuditta e Oloferne, l'opera in questione
La notizia è grossa, ma viene risolta con una didascalia e un piccolo trafiletto: sembra una vera incursione giornalistica sfuggita a tutte le pianificazioni della comunicazione. Infatti la stessa mail di invito per la conferenza stampa non contiene nessun accenno alla presenza di quest’opera bella ma discussa. Ma quella foto fa scoppiare il caso. Giovanni Agosti, storico dell’arte, il più autorevole (e temuto) esponente del comitato scientifico, che affianca il direttore James Bradburne, la mattina stessa rassegna le dimissioni: lui infatti era contrario non al fatto che il quadro venisse mostrato, ma che si soggiacesse alle condizioni del proprietario. Cioè che venisse presentato come Caravaggio senza nessun punto di domanda. Il proprietario peraltro è un mercante, che ha pubblicamente messo in vendita il dipinto e che quindi da un’operazione di questo tipo incamererebbe una stratosferica rivalutazione: la richiesta come valore assicurativo sarebbe di ben 120 milioni (con il premio da pagare a carico di Brera...).
Cena in Emmaus, Caravaggio, Pinacoteca di Brera
Il soggetto è un soggetto celebre: l’episodio biblico di Giuditta che decolla Oloferne, che Caravaggio aveva dipinto una prima volta nella versione oggi custodita alla Museo di Palazzo Barberini di Roma, ma che i documenti assicurano avesse realizzato anche in una seconda versione. C’è una parte della critica che ritiene che questa tela ritrovata in Francia sia proprio quella seconda versione, dipinta da Caravaggio all’indomani della fuga da Roma per il delitto commesso: sarebbe quindi contemporanea al capolavoro custodito a Brera. Esporla è operazione criticamente sensata, a patto di non dare per acquisito quello che buona parte della critica invece dubita: che sia opera autografa. Il curatore della mostra, Nicola Spinosa, storico dell’arte autorevole, è uno dei pochi ad aver visto la tela e lui ne assicura l’autenticità. Lo stesso Giovanni Agosti è propenso a pensare che effettivamente possa essere autografa, anche se è difficile emettere verdetti senza prima averla potuta esaminare dal vero. L’esposizione milanese aveva proprio questo senso: mettere i critici in grado di studiarla e di confrontarla con un’opera probabilmente contemporanea.
Ma le modalità di esposizione hanno fatto prevalere, in modo per molti inaccettabile, le ragioni commerciali. Brera è un’istituzione pubblica, che deve preservare la sua funzione e la sua autorevolezza, e non può quindi piegarsi agli interessi (e alle pretese) di un soggetto privato. Peraltro una situazione analoga era accaduta nelle settimane scorse a Firenze, dove il Museo dell’Opera del Duomo ha esposto un Busto che la critica è orientata ad assegnare a Donatello. Ma in quel caso la dirigenza del museo ha ritenuto più opportuno mettere un punto interrogativo a fianco del nome, nella didascalia. Un modo di procedere saggio, che forse permette a quella scultura entrata con il punto interrogativo, di uscire invece con una certezza di paternità, acquisita sul campo, proprio grazie ai dibattiti e ai confronti scaturiti dall’esposizione.
Resta solo una domanda ora a cui rispondere: chi ha passato quella foto al Corriere della Sera? Forse qualcuno che voleva forzare la situazione?