Io, yazidi, piango e vi racconto la tragedia del mio popolo
Piange Khalil a pensare alla sua enorme famiglia. Di loro non ha più notizie ormai da una settimana: 4 fratelli, 5 sorelle e una madre in fuga sulle montagne del Sinjar, non lontano dalla piana di Ninive, Iraq. È uno Yazidi, il popolo di cui oggi tutti i giornali parlano dopo i massacri degli jihadisti dell’Isis: uomini costretti a scappare a migliaia verso i curdi, assediati sulle montagne senza cibo e acqua. «Siamo pochi in Italia, qualche decina. A Bergamo sono l’unico», afferma sconsolato, soffrendo ancor più la solitudine in questi giorni in cui si legge di morti e stragi perpetuate là dove fino a 5 anni fa c’era casa sua. «Tutto quel che so lo leggo sui giornali. In più c’è Facebook: tanti amici yazidi condividono informazioni su parenti o conoscenti. “Questo è riuscito a scappare in Kurdistan”, “Quest’altro è stato ucciso”. Mio cugino dopo qualche giorno è tornato a farsi vivo. Ha messo un video dei suoi bambini da un campo profughi in Turchia: per fortuna loro stanno tutti bene».
Khalil ha 37 anni, ma la sua faccia porta i segni del tempo e direbbe un’altra età. Colpa, forse, delle tante piaghe su cui è dovuto passare: in Italia è arrivato 5 anni fa dalla Turchia acquistando un passaporto falso, si è fatto quasi un anno di carcere e ora lavora cercando un impiego qua e là. Ma questo è nulla: in Iraq ha visto tutte le lotte che hanno interessato il suo Paese negli ultimi 40 anni. Prima il conflitto con l’Iran, poi le due guerre del Golfo. La sua fuga, invece, è dovuta alla paura delle troppe ostilità contro il suo popolo, osteggiato da sempre dai musulmani. «Ricordo bene nell’agosto del 2007 quando misero una bomba nel paese dove vivevo: un iracheno entrò con un furgone pieno di materiale edile in un piazzale per i pullman. Sotto a calce e sabbia c’era però nascosto un carico di dinamite». Quel giorno di attacchi così ce ne furono ben 4, tutti operati dalla stessa mano: terroristi islamici che attaccavano la comunità Yazidi. «Ci furono 480 morti, in nemmeno un’ora».
La storia del popolo Yazidi è piena di massacri e stragi, un susseguirsi di soppressioni che spesso han visto colpevoli, in prima persona, gruppi musulmani. «Abbiamo sofferto 72 carneficine nella nostra storia. Temiamo che Sinjar possa essere il 73esimo», diceva qualche giorno fa il parlamentare iracheno Haji Ghandour, Yazidi anche lui in fuga dalla piana di Ninive. L’ostilità degli islamici nei loro confronti è dovuta a materie di dottrina: lo yazidismo è nato più di 4mila anni fa, catalizzando nei secoli successivi pratiche e credenze da altre religioni come cristianesimo, islam e giudaismo cabalistico. La diatriba con i musulmani nasce attorno a un personaggio sacro adorato dagli Yazidi, Tawsi Melek: figura angelica con le sembianze di un pavone, per l’islam ha la stessa storia di Shaitan, che rifiutò di sottomettersi a Dio e divenne il demonio: per questo i musulmani accusano gli Yazidi di credere in Satana.
«Stanotte non ho chiuso occhio, son riuscito ad addormentarmi soltanto alle 7». Khalil è lontano dall’inferno dell’Iraq ma soffre come fosse lì anche lui: le immagini degli Yazidi uccisi scorrono nella sua testa e sullo schermo del suo cellulare, condivise con rassegnazione e paura da qualche connazionale sui social network. «Ho visto la foto di un anziano che conoscevo: aveva 70 anni, gli jihadisti lo hanno preso e gli hanno tagliato la testa. Perché? Cosa poteva fare di male un uomo così vecchio?». L’Isis gli fa paura, perché è un esercito di fondamentalisti, assoldato per combattere una guerra santa senza alcuna ragione concreta: «Non usano la ragione. E soprattutto di tutti quei miliziani forse solo 5% è iracheno: la gran parte viene dall’Algeria, Tunisia, Libia, Afghanistan. E tanti anche dall’Europa». Sulla carta d’identità ogni iracheno ha indicata anche la sua religione: chi è musulmano viene risparmiato, gli altri, se non vogliono convertirsi, vengono uccisi. Ma i pensieri più tribolati vanno alla sua famiglia: Khalil è due anni che tiene per sé il minimo dello stipendio che guadagna qua in Italia. Il resto lo spedisce alla madre e ai fratelli: «Si erano costruiti una casa nuova dove poter vivere. Ma da lì son dovuti scappare pochi giorni fa».
Sono i particolari della vita di un immigrato come se ne incontrano tanti per strada, ma che alle spalle e nel cuore ha una vita tutta sua. Qui a Bergamo qualche confronto aspro con altri musulmani lo ha avuto: all’inizio non diceva di essere Yazidi, quando poi è stato scoperto lo hanno insultato, ma lui ha sempre preferito lasciar perdere. Perché in fondo qui in Italia ha trovato qualcosa che gli rende più sopportabile la lontananza da casa: «La mia fortuna è stata incontrare il Patronato San Vincenzo e don Davide: mi ha accolto, dato vestiti e cibo, mi aiuta sempre. È come se fosse il mio nuovo padre». Ma se potesse Khalil lascerebbe tutto e partirebbe per l’Iraq: «Vorrei andare a cercare la mia famiglia. Soffro tantissimo senza saper nulla di loro. Se ho paura di morire? Non importa. Stanno uccidendo migliaia di persone, sarei soltanto uno in più».