Dall'inizio a due giorni fa

Zuck al cospetto delle alte cariche (e tutta la questione dall'inizio)

Zuck al cospetto delle alte cariche (e tutta la questione dall'inizio)
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Passato dal barbiere, vestito buono, dismessa la consueta T-shirt, un nervosetto Mark Zuckerberg siede al cospetto di altissime cariche dello stato americano, ascoltato per ben due volte in due giorni. Martedì di fronte al Senato, ieri al cospetto della Camera dei Rappresentanti. Stavolta si sono veramente arrabbiati tutti.

Cosa è successo davvero. C’è aria di campagna elettorale, c’è bisogno di fondi. Nel 2016 bisogna fare i conti con lo spazio vitale – reale o virtuale che sia – dove si creano e si scambiano informazioni e si formano le opinioni, cioè online. La piattaforma che contiene una rassegna aggiornata al minuto del flusso dei dati di milioni di utenze è Facebook. Siccome il tempo passa, ma certe cose restano uguali, il mestiere di capire cosa hanno in testa gli elettori, viene affidato a un professionista, lo psicologo moldavo Aleksandr Kogan.

 

 

Un quiz come se ne vedono comparire ogni giorno ai lati della homepage di Facebook, dal nome che solo oggi, sembra ironico, un po’ spaventoso, This is your Digital Life, al quale si accede accettando di “sottoscrivere” l’informativa dell’autorizzazione al trattamento dei dati (sì, quella spunta che selezioniamo senza leggere mai le condizioni). Si accettava un trattamento che, detto in parole semplici, fa più o meno così: «Ti chiedo l’accesso a tutti i tuoi dati e a quelli dei tuoi amici». Hanno acconsentito in 270mila. Così, nella rete di Kogan, sono finiti 50 milioni di persone e tutte le loro informazioni. Pacchetto molto ghiotto in tempi bui come questi, passato a peso d’oro a chi sa come farlo fruttare, la Cambridge Analytica, società che si occupa di analisi dei dati. Pacchetto utilissimo in campagna elettorale: grazie ai dati raccolti, profumatamente pagati e poi analizzati, gli utenti venivano bombardati di messaggi di propaganda elettorale.

 

 

Scoppia lo scandalo. Il 17 marzo scorso The Guardian e New York Times pubblicano le dichiarazioni di Christopher Wilie, ex dipendente della Cambridge Analytica, che racconta come si fa campagna elettorale al tempo dei social network, a spese di chi, a quale prezzo. Conseguenze, i classiconi degli scandali degli ultimi anni, titolo di Facebook che crolla a picco e hashtag dedicato #deletefacebook. Mark, che ha 33 anni e un impero in pieno delirio, si ammutolisce per cinque giorni. I mercati non dimenticano, deve parlare. Risultato: convocato a riferire di quanto è successo davanti al Senato di Washington.

Al Senato, copione pronto. Martedì 10 aprile, i compiti li hanno fatti tutti. Lui è preparatissimo, il contegno è levigato da ore di esercizio con i legali che gli hanno fatto mandare a memoria anche qualche brocardo utile da spendere quanto si fa veramente brutta: «Non sono sicuro di aver capito la domanda abbastanza da poter rispondere chiaramente sul punto» la insegnano a Giurisprudenza. Il Senato, poi, per l’occasione è molto più affollato del solito e i senatori sfoggiano la faccia seria e il sopracciglio sguincio delle occasioni solenni: lo streaming (chissà quanti hanno assistito alla diretta proprio tramite Facebook). Il contenuto non sorprende, Zuckerberg si scusa, ammette che la privacy su Facebook non è adeguata ai numeri, alla potenza del mezzo, promette provvedimenti utili allo scopo, ricorda che «però insomma, qualcosa abbiamo fatto». Nessuno dei severissimi senatori tuonerà che già nel 2014 il regolamento della privacy era stato innovato con disposizioni più severe, che si sono rivelate palesemente insufficienti. Zuckerberg chiude con la dichiarazione d’amore di rito: «Facebook nasce per restare in contatto con le persone che amate».

 

https://www.youtube.com/watch?v=IsiuQ1Go60Q

 

Alla Camera meno bene. Due giorni fa, nuova audizione, questa volta al cospetto della Camera dei Rappresentanti, Mark sembra stanco. Stesso copione, ma più stress, dopo la strigliata di cinque ore del giorno precedente. Nuova sessione ma stesso teatrino: scuse, impegni futuri (d’altra parte, cosa può fare?), ma anche l’ammissione: Zuzkerberg sapeva della trasmigrazione di dati a Cambridge Analytica e si è accontentato solo della promessa di questa di aver distrutto tutte le informazioni. Troppa ingenuità anche per baby CEO, che ricorda di aver creato Facebook in un dormitorio di Harvard. Rimane il fatto che la storia finisce con un giovane multimilionario bacchettato da Senato e Camera americani, ma inizia con persone – con vite, lavori, passioni – che hanno accettato di consegnare spontaneamente al mondo i loro dati, le foto dei loro figli, delle loro vacanze, le abitudini e i racconti. L’assunto è brutto e inflazionato, ma fin troppo vero: «Se non paghi, il prodotto sei tu».

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