Il curioso caso dei sette Oscar a “Everything Everywhere”
Quando vengono meno le certezze e sfuma il parametro su che cosa sia “un bel film”, in quei momenti l'arte ne guadagna
di Fabio Busi
Che Hollywood stesse perdendo le sue certezze è un fatto evidente da anni. Come ogni impero, quando decade ha bisogno delle energie dei peregrini per rinnovarsi. E allora ben vengano i messicani, Cuarón, Del Toro e Iñárritu. Tanti film imprevedibili al titolo di migliore. Gli autori stanno morendo, ripiegati su film nostalgici come l'ultimo Spielberg, il malloppone è stato portato via dalla Marvel (che però è in crisi), lo streaming imperversa (ma la qualità?), i film troppo costosi sono ormai un rischio, se non sono sui supereroi. Ci mancava solo la pandemia a svuotare le sale per mesi. Che cosa resta sul campo di battaglia?
L'unica certezza è il dubbio. Dove guarda Hollywood alla ricerca di un nuovo, ennesimo rinnovamento? Sicuramente a oriente, con “Parasite”, ma anche con il trionfatore di quest'anno. Stupisce perché sette statuette (tre agli attori, incredibile) a un film così strano, “stupendorrendo”, segnano un precedente notevole. Positivo, se vogliamo. Quando vengono meno le certezze e sfuma il parametro su che cosa sia “un bel film”, be’ in quei momenti l'arte ne guadagna.
In tutto questo, c'è però una differenza tra i trionfi “esotici” e le assegnazioni di questa edizione. Si sa che gli Oscar sono un'autocelebrazione del cinema a stelle e strisce, e in qualche modo trovavano sempre una logica interna di spartizione del prestigio. Questa volta no. Sembra che l'Academy abbia voltato le spalle agli autori (e pure a certe major), rinunciando agli equilibri “politici” e preferendo dare un segnale. Sette statuette a “Everything Everywhere” sono un grido disperato di un’industria che teme di soccombere.
E cosa ci vuol dire? Che il divertimento non è vietato, che il miglior film dell’anno non dev'essere un mappazzone moralista, che il linguaggio dei giovani merita spazio. Anche se il rigore e la qualità non sono sempre ai massimi, meglio un film così che la solita pappardella autoreferenziale di un cineasta decrepito. Sarà un cinema meno sorvegliato, ma è vivo, perdio.
In tutto ciò, nelle sue contraddizioni Hollywood riserva ancora uno spazio anche per i suoi pesi e contrappesi. Se da un lato premia il nuovo spiazzante, dall'altro ripiega paurosamente e rifila quattro premi prestigiosi a un film squisitamente di retroguardia. “Niente di nuovo sul fronte occidentale” è il solito film di guerra, che unisce le novità stilistiche di “1917” a un taglio moraleggiante di cui non sentivamo il bisogno. Bellissime immagini, un poema cromatico di fango e sangue, ma narrativamente parlando siamo agli antipodi di “Everything”. Lo distribuisce Netflix, e questo spiega diverse cose.