Recensione

L’amore coreano, “Past Lives” racconta un finale diverso

Due fidanzatini che si perdono, si ritrovano e si riperdono nell’arco di 24 anni. Come Linklater, ma in versione Tao

L’amore coreano, “Past Lives” racconta un finale diverso
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Di Fabio Busi

Una compostezza tutta coreana. Anche nell'amore perduto, forse ritrovato, (mai) dimenticato in un arco temporale lungo ben 24 anni. Nonostante qualche lentezza e rigidità, “Past Lives” di Celine Song ci consegna una malinconia particolare, originale, moderna. Due fidanzatini adolescenti che si perdono, si ritrovano, si perdono di nuovo. Impossibile anticipare qualcosa di più preciso, tuttavia quel che resta e colpisce è la pacatezza nell'affrontare l'amore, quella calma orientale che arriva a riconoscere i sentimenti che innervano tutta un'esistenza, ma senza lasciarsene travolgere, perché magari quell'amore sboccerà “in un'altra vita, forse la prossima”.

Se mettiamo in parallelo le vicende qui narrate e quelle della celebre trilogia di Linklater (“Before Sunrise” e così via) possiamo estrapolare una significativa dicotomia tra il pensiero occidentale, quella foga arrivista e teleologica che pone l'accento più forte sul raggiungimento dell'obiettivo, e la filosofia orientale, il Tao, quel senso di completezza circolare che unisce bene o male, un'arrendersi alla vita, dissolvendo le proprie volontà nel destino.

Nella seconda parte il sentimento e la perdita, la difficoltà di decidere, le triangolazioni dei sentimenti si dipanano in una serie di mirabili dialoghi che propongono una forma nuova di melange amoroso. Non più furore, non più ardore, ma la calma malinconica delle scelte, la razionalità che prevarica la nostalgia. Un bacio solo pensato, un'immobilità attonita di fronte ai grandi sentimenti inespressi della vita. Si può solo restare ad osservare estaticamente il fallire del puzzle che mai si completa.

Di pari passo, la regia segue la filosofia con inquadrature statiche, quasi pittoriche, dove i personaggi si muovono spesso in figure intere, inquadrate da lontano. C'è uno spiccato gusto artistico nella messa in scena, che a volte completa con geometrie simboliche quello che le parole, per lunghi tratti scarne e sibilline, non dicono mai del tutto. Se le conversazioni tentano di unire, le immagini, le linee e gli scenari separano. I volti dicono tutto, ma quel tutto non è mai abbastanza.

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