Recensione

“Oppenheimer”, una bomba non priva di scorie

La narrazione frenetica di Nolan esalta la visione ma a tratti la deforma, togliendo respiro ai temi

“Oppenheimer”, una bomba non priva di scorie
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Di Fabio Busi

Perché Christopher Nolan si diverte così tanto a distorcere il tempo? Che senso ha il suo cinema rompicapo? A quale scopo trasforma la narrazione in un enigma?

Tutte domande sensate, che non sempre ottengono risposte adeguate nell'ormai vasta filmografia del cineasta. Forse il gusto per la distorsione spazio-temporale deriva da un senso di inadeguatezza, come se la vita narrata sul grande schermo non fosse abbastanza. Neanche la tragedia della bomba lo è, e quindi per evitare la noia e la prevedibilità il regista in “Oppenheimer” mescola le carte, alternando almeno tre piani temporali, senza nemmeno avvisare.

La scommessa tuttavia è clamorosamente vinta, per due motivi. Uno estetico e uno etico. La vicenda in sé è troppo grigia, inaccessibile per certi aspetti, poco accattivante per il pubblico generalista. Scienziati che discutono, litigano, interrogatori minuziosi basati spesso su questioni cavillose. Un’esposizione piana e lineare avrebbe mortificato la pulsione da alchimista dell’autore (e le aspettative delle masse paganti). Mescolando, le diverse parti si illuminano a vicenda, perché lo spettatore è sempre un passo indietro e il fascino del film sta proprio nello sforzo costante che viene richiesto a ognuno di noi per capire e stare sul pezzo.

Sul piano etico, la gloria di Oppie non può prescindere dal suo declino, la magnificenza non può essere separata dai veleni. Così, più che narrare Nolan dispone un'indagine a tutto campo sulla persona, nella quale il tempo è polverizzato: tutto si tiene, in ogni istante. È come se la curiosità e quasi l’ansia conoscitiva del pubblico (e di Nolan stesso) non potessero aspettare. Vogliamo tutto subito.

Questo ha anche degli effetti collaterali. La giustapposizione frenetica di vicende diverse esalta la visione, ma la deforma anche, privandola di una struttura forte. Sta al cineasta demiurgo scegliere come disporre la materia, e in questo forse Nolan poteva fare meglio. La tensione costante, data da un montaggio furibondo e dalle musiche sempre in agitazione di Göransson, ha il suo acme nel grande, meraviglioso orrore del Trinity test, dove gli spasimi raggiungono vette inusitate. Poi però è un lento declino, come una depressione post partum.

La frenesia narrativa toglie forse un po' di respiro ai temi, alla questione morale, che viene sì affrontata, ma attraverso frammenti di dialoghi. Eppure, al di là dei virtuosismi tecnici, resta l’aspetto più interessante del film. Oppenheimer nella sua grande visione si dimostra miope, cade vittima della nevrosi che attanaglia l'umanità tutta: l’idea dell’ineluttabilità del male, perché «se non lo faccio io, lo faranno i nazisti, o i russi».

L’illusione tragica che sia possibile raggiungere la pace attraverso un’arma spaventosamente potente, in una corsa disperata che mettendo in campo le migliori menti del pianeta non fa altro che dimostrare la sostanziale stupidità, e bestialità, dell’agire umano.

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