L'intervista

Parla Francesco Micheli: «Facciamo cultura perché fa bene all'anima, non per soldi»

L'ideatore dello show inaugurale di Bergamo Capitale: «Lo spettacolo penso sia stato apprezzato. Memorabile l'esibizione dei francesi»»

Parla Francesco Micheli: «Facciamo cultura perché fa bene all'anima, non per soldi»
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di Paolo Aresi (foto di Devid Rotasperti)

Francesco Micheli ha ideato e condotto lo spettacolo che ha aperto l’anno di Bergamo (e Brescia) Capitale della Cultura. Ha immaginato la sfilata dei Nuovi Mille, la rivisitazione di “Noter de Berghem”, l’inserimento del rapper, del coro che leggeva il sonetto del Tasso, l’Arlecchino-a meraviglioso mattatore...

Micheli da nove anni dirige la stagione lirica, il festival del Donizetti. La fusione di diversi elementi culturali è una delle sue aspirazioni, per esempio l’incontro nuovo tra musica colta, alta, e cultura pop, popolare. In questo senso ha promosso le “Donizetti Night”.

È contento di come è andata l’inaugurazione?

«Non sono mai del tutto soddisfatto dei miei lavori… detto questo, credo che sia andata bene, che lo spettacolo abbia coinvolto ed emozionato le ventimila persone presenti. Abbiamo spaziato nella storia, nella cultura, nell’identità di Bergamo. E lo show in piazzale Marconi, dei francesi Groupe F, è stato francamente indimenticabile, questo lo posso dire».

Siamo capitale italiana della cultura, una grossa responsabilità. Che cosa intende lei per cultura?

«La cultura è l’espressione del pensiero e dei valori più rappresentativi di una comunità. Abbiamo tante culture, certo. La cultura italiana, francese, tedesca... La cultura popolare, la cultura di corte. La cultura contadina e quella aristocratica... In ogni caso penso sia fondamentale per la nostra vita il patrimonio di conoscenza, di gusto, di sensibilità che abbiamo ereditato dal passato. Voglio dire: un edificio, un quadro antico hanno un valore concreto, ma anche un valore spirituale che è benefico, che fa bene alle persone».

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Le foto sono state realizzate da di David Rotasperti

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Viviamo in una società, anche bergamasca, molto frammentata, abbiamo diversi gruppi sociali, ognuno con una sua cultura.

«La complessità aumenta, le comunità sono sempre più frammentate, è vero. Non siamo più nell’Ottocento quando, per esempio, la nostra opera lirica era apprezzata da tutti e in tutto il mondo. Oggi non abbiamo un artista in grado di raccogliere tutto l’immaginario collettivo, è vero».

In questi giorni abbiamo sentito parlare spesso della cultura come veicolo per aumentare il turismo e quindi il guadagno economico. Un modo per fare soldi, insomma.

«Questo è un pericolo dei nostri anni, che tutto venga visto secondo una logica commerciale e venga scelto secondo questo criterio che sovrasta tutto. No, ovviamente, la cultura è un valore in sé e facciamo cultura per fare del bene alla nostra anima. Perché se io sento una romanza di Donizetti o ammiro i palazzi di Città Alta o un dipinto del Caravaggio mi sento più vivo e quindi più felice, più contento di essere nel mondo. Questo, semplificando molto, è il senso del proporre cultura, del divulgare cultura. Dobbiamo andare contro la commercializzazione delle relazioni. E dobbiamo rendere accessibile a tutti il patrimonio culturale del passato».

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Ogni gruppo sociale sembra avere una sua cultura.

«Sì, è un po’ così. Allora lo sforzo deve essere quello di favorire lo scambio dei prodotti culturali tra i vari gruppi. Tra i vecchi e i giovani, per esempio. Tra i cittadini che vengono dall’Africa e i bergamaschi...».

Diceva che la cultura fa bene all’anima.

«Sì, c’è una valore benefico, perché l’arte (...)

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