La Dea nell'Olimpo

15mila in piedi per questa squadra

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Bergamo Altissima. «Siamo bergamaschi e non conosciamo confine», mostrava un tifoso in faccia ai tedeschi in una delle notti più tristi della storia atalantina. Resta una grande amarezza ai giocatori di Gasperini in questi sedicesimi di finale dell’Europa League: contro il Borussia avrebbero meritato di passare il turno. E resta però anche una certezza: il futuro è tutto nerazzurro. «Grazie ragazzi», è l’ultimo coro fatto a questa meravigliosa creatura in versione europea.

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Foto inviataci da Beppe Capelletto.

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Foto inviataci da Beppe Capelletto

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Foto inviataci da Beppe Capelletto.

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Foto inviataci da Beppe Capelletto.

In questo lungo viaggio in Europa League, più simile a una Dakar che a una coppa europea, si sono messi in strada almeno sessantamila bergamaschi in poco meno di sei mesi. A cui vanno aggiunti i sedicimila di ieri sera (giovedì) arrivati con le sciarpe, i giubbotti e i sogni. A Lione erano andati in 2.800, a Liverpool in 3.500, poi 800 a Cipro (chapeau) e altri 8 mila in Germania per la sfida d’andata contro il Borussia Dortmund. E in questo flipper da record ci sono altri numeri da considerare: a Reggio Emilia si sono riversati qui (almeno) quindicimila tifosi a ogni partita dell’Europa League, trasformando il Mapei Stadium nella casa nerazzurra delle grandi occasioni. Nel 1977, quando a Genova si giocò contro il Cagliari lo spareggio per andare in Serie A, al Ferraris andarono quindicimila persone. Tanto per dire che l’esodo a tappe di questa coppa europea è qualcosa che ha squarciato ogni aspettativa possibile.

Non c’è mai stato niente di simile nella lunga storia nerazzurra, fatta di 110 anni, 4 mesi e 6 giorni, di 3.634 partite, 3.276 di queste in campionato, 277 di coppa Italia e 81 in Europa. Quella di ieri, la numero 82, è stata commovente. Sul campo e sugli spalti. Non si poteva risparmiare sulla coreografia, Bergamo non ha mai deluso. Quando i giocatori entrano in campo, i tifosi nerazzurri sventolano pezzi di stagnola luccicante, sparano fuochi d’artificio, srotolano il bellissimo volto della Dea coi capelli al vento. Selfie-moment: il più bello della vostra vita. E intanto di là, i tedeschi venuti da Dortmund, rispondono con balli e canti in versione giallonera. Saltano, si muovono in sincro. È una battaglia all’ultima bellezza, all’ultimo coro, all’ultimo colpo di tamburo. Bum-bum, batticuore. La tensione si sente. Qualcuno fa gli scongiuri, altri preferiscono stare petto in fuori: «Stasera vinciamo noi». I primi minuti sono confusi, ma più per gli spettatori che per i ragazzi del Gasp. Loro rullano come un compressore. E infatti il gol di Toloi dopo undici minuti è una sorta di liberazione. Dalla paura di non essere all’altezza. Dall’idea di essere ancora solo una squadra di provincia anche se poi il finale sarà troppo amaro.

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Il volume sale, l’onda nerazzurra adesso sì che trascina i giocatori in un arrembaggio pieno di furore, di forza e volontà. E quando Cristante, imbeccato dal Papu con uno di quei tocchi vellutati, colpisce di testa, l’urlo dei tifosi è un inganno: la palla è fuori di tanto così. Oppure quando Ilicic e Gomez duettano a colpi di finezze: il muro nerazzurro si scatena. È l’idea di essere con un piede negli ottavi di finale a dare energia al popolo bergamasco. La consapevolezza non fa paura. Anzi. Lo aveva detto anche Gasperini prima della partita: «Sette giorni fa abbiamo capito quanto siamo forti anche noi...». È proprio così. La forza della Dea è travolgente. Si comincia a guardare l’orologio, il tempo sembra non scorrere più. E del resto è lunga, ancora: c’è tutto il secondo tempo.

Nell’intervallo la gente comincia a cullare il sogno di un passaggio del turno che sa di storia. L’ultima volta che i bergamaschi furono testimoni di una partita così importante fu nel 1996, quando si giocò a Bergamo la finale di Coppa Italia contro la Fiorentina. Finì male, ma quella finale resta l’ultimo ricordo di una generazione che nel frattempo è cresciuta. Un’altra è invecchiata. Quelli che videro la semifinale contro il Malines hanno trent’anni in più. Per la nuova generazione quella contro il Borussia è un’emozione nuova, mai provata prima.

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È per questo che nessuno ha il tempo di avere paura. Anche nella ripresa l’Atalanta è il vero panzer. Attacca, spinge, cerca il raddoppio. «Vinci per noi magica Atalanta», grida la curva, la tribuna, tutto lo stadio. Quelli del Borussia cantano Ricky Martin, «La vida loca» in versione stadio (mmm, rivedibile). È un momento importante perché i tedeschi attaccano, provando a sbarazzarsi della ragnatela che Gasperini gli ha appiccicato addosso. Quando Berisha esce a prendere l’ennesimo traversone da calcio d’angolo, tutti tirano un sospiro di sollievo. Il grande rammarico è il contropiede innescato dal Papu, illuminato da Cristante e sciupato da Ilicic, che tira fuori di un nulla mentre dagli spalti parte un «noooo» che scuote i pilastri del cielo. E peggio quando il Papu sparacchia sul petto del portiere tutto solo. A quel punto la regola è implacabile: gol sbagliato, gol subito. Per un po’ la partita resta in bilico. Ci si stringe, ci si tira le giacche. Quando Schurrle tira sulle mani di Berisha gli ottavi sembrano più vicini. Invece arriva il gol di Schmelzer, e le certezze crollano in un attimo. Il muro nerazzurro non la smette di cantare. «Forza Atalanta», «Forza Atalanta». Forza Atalanta, sì: ma i minuti adesso scorrono troppo velocemente. Quando l’arbitro fischia la fine i giocatori restano in campo, sfiniti. Mentre tutto lo stadio si alza ad applaudire.

Forse lo capiremo solo quando gli anni e la storia avranno fatto il loro dovere: rendere memoria collettiva a questo momento. Per ora, i bergamaschi lo stanno rumorosamente attraversando più o meno consapevolmente.

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