Lavorano regolarmente, ma i datori li pagano con la cassa Covid invece che con lo stipendio
L'abuso pare essere diffuso in ogni genere di comparto, anche nel settore artigiano. La Cgil invita i lavoratori a segnalare immediatamente questi comportamenti
Hanno continuato ad andare regolarmente al lavoro, ma alla fine del mese la loro busta paga era diventata più leggera: così, alcuni dipendenti di diverse aziende della provincia bergamasca, rivolgendosi ai sindacati, hanno scoperto di ricevere non lo stipendio pieno, bensì la cassa integrazione Covid.
L’allarme arriva dalla Cgil di Bergamo, che invita i lavoratori che sospettino di essere vittime di questo tipo di abusi di segnalarli subito al sindacato. «In diverse categorie e comparti produttivi stiamo riscontrando il ricorso alla cassa integrazione Covid senza avvisare i lavoratori e continuando a farli lavorare, come se nulla stesse accadendo», denuncia Angelo Chiari, della segreteria provinciale della Cgil bergamasca.
Metalmeccanica, tessile, edilizia, gomma-plastica, commercio. Questa pratica sembra essere presente in ogni settore lavorativo. «Conosciamo bene il difficile momento che le aziende stanno attraversando – aggiunge Chiari -, ma questi abusi, oltre a truffare lo Stato, creano un danno economico diretto ai lavoratori che spesso non sono informati, ma che in altre occasioni, pur consapevoli, non hanno altra scelta se non lavorare comunque. Inoltre, truffe del genere non fanno altro che togliere risorse alle aziende veramente in difficoltà».
Il sindacato ha intercettato alcuni dipendenti che hanno segnalato situazioni simili anche nel settore dell’artigianato. «Per fare un esempio – racconta Mauro Rossi dello sportello artigiani - mi è capitato di incontrare una lavoratrice che mi ha chiesto di verificare il suo cedolino paga: malgrado stesse lavorando regolarmente e a orario pieno, il suo stipendio presentava decurtazioni motivate dal ricorso alla cassa Fsba, cioè all’ammortizzatore sociale per il settore artigiano».
«La lavoratrice non era per nulla consapevole di essere stata messa in cassa integrazione – conclude Rossi -. Alla richiesta di chiarimenti rivolta al datore di lavoro da parte della dipendente, è stato risposto che si trattava di ore accantonate per future sospensioni di attività lavorativa: una certa fantasia, nella malafede».