Orgoglio nerazzurro

Abbiamo perso, ma non siamo vinti

Abbiamo perso, ma non siamo vinti
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E adesso che lo spettacolo è finito e sono qui appoggiato a questa balaustra del gate 10, con un hot dog e una birra in mano, penso a questa giornata, a questo pomeriggio, a questa partita. L’ultimo gol dello Shakhtar è stato il colpo del kappao, sono caduto al tappeto, stordito, e non mi sono ancora riavuto. È come se quel gol non ci fosse nemmeno stato, come se tutto fosse soltanto un sogno, come se l’intera partita, come se questo magnifico stadio che vogliono demolire, questo fiume di folla stralunata dalle sciarpe nerazzurre non ci fossero realmente, ma navigasse tutto in una nebbiolina, in una sospensione della realtà.

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Mastico il panino, sorseggio la bionda. Mi sono sempre piaciuti gli hot dog. Hanno un sapore intenso, consolatorio. Che giornata. Ma è vero che Ilicic ha sbagliato un rigore? No, non si può sbagliare un rigore e pensare di vincere. Non in Champions. Qui non giochiamo contro il Brescia o il Sassuolo, con rispetto parlando. Qui ci sono le squadre più forti d’Europa. Qui sono tutti Napoli, Inter, Juventus. E qui tutti hanno la consapevolezza di giocare per il torneo più importante: per questo, non ti perdonano niente, non ti fanno sconti. Ti puniscono. Quel gol è un uppercut, un pugno che dal basso sale verso l’altro e ti colpisce al mento con violenza fulminante. Al novantacinquesimo.

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La birra è buona. Me l’ha data quella signora del furgone che aveva le sopracciglia nere, disegnate dalla matita, il rossetto forte. Un po’ volgare. Siamo partiti da Bergamo alle quattro, in auto. Ed è stata subito coda. A un certo punto abbiamo temuto (in auto eravamo in tre) che a San Siro non ci saremmo arrivati mai. La coda iniziava a Bergamo, prima dei caselli, poi ha ripreso a Dalmine, quindi il navigatore ha annunciato che da Agrate a viale Certosa era tutto intasato. Abbiamo imboccato la est, ma l’uscita consigliata, a Cologno, era tutta una coda. Alla fine, ci ha salvati la Gobba: abbiamo mollato l’auto e preso tre linee di metrò: siamo entrati a San Siro che la partita era iniziata tre minuti. E subito abbiamo iniziato a incitare, travolti da questo tifo incessante di noi bergamaschi. L’Atalanta che appare quella vera, forte, incessante, pressante, emozionante. Ilicic, il rigore. Pasalic, il palo. Sfortuna. Ma non molliamo, giochiamo, corriamo, saltiamo, tiriamo. Zapata gol, al ventottesimo. Zagabria è dimenticata: anche in Champions, ora, c’è la vera Atalanta. E lo Shakhtar non è niente male, ci sono quel numero 7 e numero 11 che sembrano due Gomez, palla incollata al piede e velocissimi. E la nostra difesa a tratti sbanda, ci preoccupa. Anche se il nostro gioco è maestoso e potremmo colpire ancora. Invece arriva l’uno a uno. Prima doccia fredda. In Champions non puoi sbagliare così, Marten. I minuti corrono in questo stadio nella prima sera di ottobre, così tiepida, dolce, sorridente. Ma poi smette di sorridere e quel tepore diventa gelo. Il sogno si spegne nell’incubo.

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Mangio il mio panino qui appoggiato al cancello e ormai sono quasi alla fine. Rivedo quegli ultimi secondi nella nebbia di quel pugno. L’arbitro conterà fino a dieci, se non mi rialzo ho perso. Quel trottolino di Salomon ci ha fatto il gol della beffa. Ma il fatto è che lo stadio ammutolisce, sì, e lo speaker annuncia il gol nel silenzio. Ma basta poco e i tamburi riprendono a rullare e tutta la grande curva ricomincia a cantare e ad applaudire mentre il fischio dell’arbitro dice che è finita. Ma i cori della curva e gli applausi invece dicono non è finita, no. Abbiamo altre partite davanti. Applaudiamo gli undici guerrieri, e quello in panchina con la giacca blu e gli altri.

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Ho finito il panino, l’ultimo sorso di birra. La nebbiolina si dilegua, guardiamo in faccia la realtà, l’arbitro ha contato fino a nove, possiamo ancora rialzarci: al tappeto sì, ma ko no. Comincio a camminare nella notte verso il piazzale Lotto, le automobili sfrecciano nel vialone. Abbiamo perso, è vero, ma non siamo vinti.

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