Pièce di Massini, regia di Ronconi

Vogliamo la Lehman al Donizetti

Vogliamo la Lehman al Donizetti
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Scrivere della Lehman Trilogy di Stefano Massini, portata in scena per la prima volta nel 2015 al Piccolo con la regia di Ronconi, è come attraversare l’Oceano Atlantico. Non basta il fiato, e ci si lascia prendere dalla paura. Perché in quelle due parti di pièce teatrale, da due ore e mezza l’una e due ore l’altra, c’è tutto. E nulla che si riesca a dimenticare.

Verrebbe da ringraziare, a voler essere sentimentali. Ronconi, certo, che la lesse in quell’estate di quattro anni fa, la trovò «sorprendente», ci vinse cinque premi Ubu e ce la consegnò come eredità che supera di gran lunga quel che avremmo meritato. E Massini, prima di tutto, che la scrisse, 34enne, nel triennio 2009-2012, e riempì trecento pagine di sceneggiatura semplicemente impeccabile. La forma della parola tiene, per tutte quelle ore, senza mai un piccolo cedimento, rendendo impossibile allo spettatore staccare gli occhi da un’epopea ebraica, dentro la quale trova spazio un universo lungo centosettant’anni: la storia minuta e solenne di una famiglia, la nascita del capitalismo, lo sfrenato sogno americano destinato ad andare in frantumi una volta per tutte con la crisi del 2008. E lo spietato smarrimento delle proprie radici.

 

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Tutti sappiamo che cosa fu il colosso finanziario Lehman Brothers, tutti ne conosciamo la potenza del simbolo, dall’ascesa alla fragorosa, devastante caduta. Forse nessuno avrebbe potuto raccontarne l’anima, la sfumatura umana palpitante dietro alla mostruosa macchina. Massini sì. C’è riuscito partendo dal sacrario, ovvero dall’identità (personale, di famiglia, di popolo, di nazione): un tema universale in cui è facile e necessario lasciarsi immergere, che tiene incollati alla sedia dall’inizio alla fine e in alcuni punti, se non si è proprio nati cinici, fa pure commuovere un po’.

Così, siamo tutti Henry Lehman, quando, a 23 anni, nel 1844, sbarchiamo sul molo di New York con mille speranze, per poi finire in Alabama, a vendere abiti e tessuti agli schiavi dell’America rurale. Siamo anche Emanuel e Mayer, che raggiungono il fratello poco dopo, e con lui si inventano, con l’industriosità sagace degli ebrei che li fa tanto stimare e odiare da che storia dell’uomo ricordi, un commercio di cotone. E poi siamo i figli, cittadini statunitensi doc, Philip ed Herbert, finanziere d’assalto l’uno e istrionico politico democratico l’altro. E anche il nipote Robert che, ultimo della genealogia, con tutte le sue contraddizioni, consegnerà a mani spregevole un Moloch dell’economia destinato a fallire. Siamo tutti loro, perché con loro, con quel sangue abietto e spregiudicato, che non trova mai pace e sopravvive a tre guerre, siamo parte di un mondo che plasmiamo, foss’anche solo con la nostra connivenza, e davanti al quale restiamo comunque impotenti.

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Ma siamo loro soprattutto perché loro sono la nostra nostalgia: di una casa, di quella casa a Rimpar, in Baviera, dove il mondo aveva un altro tempo, quello della fanciullezza e dell’essenzialità. Delle preghiere prima di dormire, di qualcosa a cui appartenere davvero. E siamo loro perché un giorno tutto poi si è rotto e abbiamo dovuto cominciare a correre. E i riti religiosi, quelli che da generazioni scandivano il tempo e definivano cuore e azioni, spariscono scena dopo scena, lasciandoli e lasciandoci orfani, inglobati in un’efficienza necessaria alla sopravvivenza e nella spirale vitale della compravendita.

I capitoli sono scanditi da parole ebraiche, a tentare di dominare la marea inevitabile di questa perdita, ma non basta. Gli attori, un cast assurdo per eccezionalità (per i Lehman: De Francovich, Gifuni, Popolizio, Esposito, Zibetti, Cabra), sono immensi, nello svelarci il vuoto che avanza. Il rumore tremendo di questo spezzarsi passa attraverso i loro corpi e le loro voci come una nevrosi che monta piano piano. Poi diventa vorace. E non lascia più niente.

 

 

La Lehman Trilogy è un capolavoro, c’è poco da fare. E, come tutti i capolavori, non ci consente di rimanere uguali a prima. Si esce dal buio della platea come se qualcuno ci avesse mostrato a forza un filmato di noi bambini a giocare nel giardino della nonna, con le campane che ci chiamano a Messa. E poi, una volta aperta la ferita, ci avesse tirato un paio di schiaffi per farci aprire bene gli occhi: la soddisfazione di un iPhone, lo shopping come sollievo, il lavoro h24 per definire se stessi, il successo come unico metro di misura, nessun tempo per fermarsi, il ciclone e noi nell’occhio. Lassù, in alto, non c’è Dio ma una finanza che si guarda soltanto allo specchio. Fa piangere.

Portare la Lehman Trilogy al Donizetti è un imperativo categorico. Lo è ovunque, a dire il vero, ma un po’ di più a Bergamo. Dove ogni tanto, presi come siamo dall’operosità, ci scappa un po’ la distinzione tra fare ed essere. Massini dà invece la soluzione: Rimpar è ciò che tu sei, ritornaci.

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