Giocare, ridere e sorprendere con la musica: è la cifra di Elio e della sua band di giovani virtuosi, che dopo il successo di “Ci vuole orecchio” tornano a Bergamo con “Quando un musicista ride”, in scena giovedì 27 novembre alla ChorusLife Arena. Al centro dello spettacolo un affresco irresistibile della Milano comica e musicale del secondo Novecento: da Jannacci a Gaber, da Fo a Cochi e Renato, dai Gufi a Paolo Villaggio, fino a chicche dimenticate e perle rare. Un repertorio “seriamente comico”, come lo definisce Elio, che diventa racconto, memoria e reinvenzione.
Dopo Jannacci e Gaber, continui a muoverti in quel filone di comicità musicale. Da dove nasce questo percorso?
«È iniziato tutto con “Il Grigio” di Gaber, anche se prima avevo già lavorato con il regista Giorgio Gallione nel musical degli Addams, quello con Geppi Cucciari. Da lì si è creato un rapporto artistico molto forte. Lui ha insistito perché facessi “Il Grigio”, che non avevo nessuna intenzione di fare, e invece è andato benissimo. Così poi gli ho chiesto di aiutarmi a realizzare uno spettacolo su Enzo Jannacci, un mio sogno da tempo. Pensavo a una ventina di repliche… ne abbiamo fatte più di 150».
E da quel successo nasce “Quando un musicista ride”.
«Sì, l’agenzia mi ha chiesto di pensare a un nuovo spettacolo in quella direzione. Per me vale sempre una regola: faccio solo cose che mi piace fare davvero. Qui abbiamo semplicemente allargato lo sguardo: non solo Jannacci, ma tutti gli artisti che ruotavano attorno alla sua Milano. Gaber, Cochi e Renato, i Gufi, perfino un folle come Clem Sacco. C’è anche una favola di Umberto Eco. È la Milano degli anni ’60 e ’70: la mia Milano».
Che città era quella, vista da oggi?
«Un unicum. Io ci sono cresciuto: con gli amici si rideva con quelle cose lì. Riguardandola oggi, era una scena irripetibile: linguaggi nuovi, umorismi surreali, una libertà creativa che non assomigliava a nulla. Si incontravano talenti diversissimi: pensa a Boldi dei primi tempi, o a Felice Andreasi. Sembrano quasi artisti contemporanei. Tutto questo è merito di Milano e del clima del dopoguerra: voglia di ricostruire, voglia di fare. Oggi quella voglia mi sembra un po’ svanita».

Audacia cercasi…
«Sì, manca il coraggio di osare. È un altro motivo per cui porto in scena questi artisti: ricordano quanto fosse libero quel modo di fare spettacolo. L’arte deve essere libera, non puoi mettere limiti agli artisti, tanto meno ai comici. C’era censura anche allora, certo, ma non quella strana cappa di oggi, dove sembra non si possa dire più niente».
Esiste oggi qualcosa che consideri all’altezza di quella originalità?
«Qualcosa sì. Non amo in generale la moda della stand-up perché spesso ripete gli stessi schemi, però in mezzo c’è chi fa qualcosa di davvero nuovo. Valerio Lundini, per esempio: si sente che cerca sempre qualcosa di originale. Io amo l’imprevedibilità: a teatro il pubblico non dovrebbe mai sapere cosa sta per accadere».
Nel tuo spettacolo questa imprevedibilità c’è?
«Sì. Anche se i materiali sono datati, oggi risultano spiazzanti. C’è una canzone di Gaber del ’61, “Benzina e cerini”, in cui la protagonista cosparge di benzina il fidanzato e gli dà fuoco. Prova a cantarla oggi. Eppure mi piace vedere le facce del pubblico quando sente quel testo: l’arte deve potersi esprimere senza guinzagli».
Hai spesso criticato la musica contemporanea: non ti convince?
«Non è questione di essere un boomer, come dicono. Semplicemente non la trovo interessante dal punto di vista artistico. Io sogno di ascoltare un giovane musicista davvero sorprendente. Qualcuno c’è, certo, ma non sono quelli che dominano le classifiche. Ieri guardavo il GialappaShow, dove la musica la sceglie Vittorio Cosma: porta sempre artisti interessantissimi. I Neri per Caso, ad esempio, sono strepitosi. E poi Carlo Amleto, che tempi ho visto anche ai di “Lol Talent”: un musicista vero, un genio. Sul palco è incredibile, virtuosissimo e divertente allo stesso tempo. Io amo questo tipo di artisti: quelli bravi, che sanno fare le cose bene e riescono anche a farti ridere».
C’è speranza che il gusto del pubblico cambi?
«Me lo auguro davvero. Non per me, per loro: perché chi fa cose belle e originali merita un mondo migliore di quello che abbiamo oggi».