A tre voci sul Foglio

Cosa ci insegna La Traviata? Che l'amore vero non è romantico

Cosa ci insegna La Traviata? Che l'amore vero non è romantico
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Da questa sera, al Teatro dell’Opera di Roma, va in scena La Traviata, opera di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave. Con qualche novità che promette bene. Alla regia c’è la brava Sofia Coppola, mentre la produzione è stata affidata allo stilista Valentino Garavani (e al socio Giancarlo Giammetti), che rassicura: «Ho voluto una Traviata non moderna e ridicola come se ne fanno molte oggi, ma classica e splendida». Per la musica, la garanzia di nomi e di un ensemble importante: l’Orchestra, il Coro e il Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma, diretti da Jader Bignamini, Francesca Dotto nel ruolo di Violetta Valéry e Antonio Poli nel ruolo di Alfredo Germont.

Perché valga la pena di parlare e ascoltare e vedere ancora la Traviata è cosa naturalmente ovvia, dato l’assoluto capolavoro operistico che rappresenta. Sul Foglio di oggi, martedì 24 maggio, si scopre anche qualche motivo in più, in un’interessante indagine a più voci, tutta a pagina IV, circa il valore umano (e divino) di questa creazione di Verdi. Mario Leone, Simonetta Sciandivasci e Antonio Gurrado ricostruiscono, in tre linee a incastro, il cuore dell’opera, ciò che la rende così adamantina. Universale. E dunque, immortale.

 

VALENTINO - OPERA LA TRAVIATA

 

La trama è nota, ispirata alla Signora dalle camelie di Dumas: Violetta è una mantenuta d’alto bordo (Traviata ovvero “colei che è uscita dalla via”) nella Parigi del Settecento-Ottocento, dove si brinda «ne’ lieti calici». È malata di tisi e probabilmente piuttosto infelice. Alfredo è un giovane nobile che si è invaghito di lei. Ovviamente si innamorano e, in quel «palpito dell’universo intero», lei rinuncia agli sfarzi e alla vita da cortigiana per ritirarsi con lui in campagna. Lui, per forza, rompe con la famiglia. Finché Germont senior, cioè il padre di lui, si presenta dalla dama e le dice, più o meno: «Avrei una figlia “pura siccome un angelo” e vorrei farla sposare. Ma finché quello scapestrato di mio figlio se ne sta con un’ex prostituta, mi viene difficile. Non è che tu per amor suo e nostro fingeresti di non amarlo più?». Ora, senza senso alcuno, o perlomeno, senza senso umano, Violetta accetta. Dando vita a un sacrificio di sé in nome del bene che provoca un turbine di sofferenze, fino alla morte. Persino il vecchio Germont, alla fine, dovrà riconoscersi «malcauto vegliardo! Ah, tutto il mal ch'io feci ora sol vedo».

Eppure - e invece -, scrive Antonio Gurrado, il vecchio è strumento di Dio che attiva la scelta al sacrificio, «emissario divino» che porta chiarezza e ricusa, finalmente, definitivamente, il romanticismo e la passione come soluzione al male, al vuoto del vivere. Perché di questo tratta, la Traviata. Di quale sia l’amore vero. O meglio, di quale sia l’amore che salva. Alfredo crede di identificarlo in un vorticoso romanticismo (canta: «Dell’universo immemore mi credo quasi in ciel»), lei, un po’ più pratica e un bel po’ più onesta, ancora lo riconosce nel piacere, «strumento abissale – scrive Gurrado – che le consente di annientarsi». Poi arriva il padre, e le cose tornano al loro posto. «La gioia vera nasce dal sacrificio di sé in nome di un amore più grande», si legge nel sottotitolo di pagina IV del Foglio.

 

La Traviata glamour di Valentino-Coppola

 

Ora, il problema è il come. Perché, assioma numero uno, la lezione è altissima, ma i personaggi sono – noi siamo - esseri umani. Dice bene Leone: «Della Traviata tutti noi, postmoderni e virtuali, abbiamo bisogno: è il simbolo della carne. Non quella pansessualista di molti adattamenti a cui dobbiamo assistere in giro per i teatri. La carne intesa come tutto ciò che è umano: slanci, cadute, desideri, miserie, grettezza, sacrifici». E questa carne, di fatto, deve sacrificarsi. Fa notare Sciandivasci che Violetta inizia a morire molto presto, in scena, prima ancora che lo spettatore sappia che è ammalata: sviene e si accascia continuamente, in una debolezza fisica e interiore che non sa trovare tregua, ma che – ci si attende – lascerà spazio a una compensazione, a qualcosa di grande.

Così, scrive Sciandivasci, se all’inizio «Violetta travia l’amore dal possesso, quel pungolo che sentiamo forte quando ci rendiamo conto che la vita passa e ci svuota le mani e allora prendiamo affannosamente a riempirle con le cose, le persone, le passioni orrendamente scambiate per sentimenti», diviene poi mezzo di salvezza, «eroina del futuro che comprende come il dolore non sia vano» e ci consegna «l’immensa, inattuale eternità» di chi rinuncia all’amore per amore.

Sì, ma come fa? Sì, ma come si fa? Uno: «Verdi fa cantare a Violetta la scoperta che chi ci ama può non essere capace di farlo. E l’atrocità sta lì, non nello scontro con le convenzioni». Appunto. Due: alla rinuncia di sé per un amore più grande, «a un sacrificio così alto non s’arriva con le passioni, ma coi sentimenti ben allacciati alla ragione. Per questo la Callas restituì una Violetta lucida, poco romantica. È Alfredo quello romantico, e per questo volubile, orgoglioso, babbione». Che Dio, per parafrasare il titolo di Gurrado, ci salvi tutti dal romanticismo di Alfredo.

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