A proposito di un libro di successo

Perché "Sette brevi lezioni di fisica" non bastano a capire la fisica

Perché "Sette brevi lezioni di fisica" non bastano a capire la fisica
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Possiamo sbagliarci, ma Sette brevi lezioni di fisica, di Carlo Rovelli (Adelphi), nonostante il successo di pubblico, non mantiene la promessa del titolo. Nessuna lezione, né breve né lunga. Sono sei racconti di importanti avventure della fisica dal Novecento ai nostri giorni, più una conclusione di carattere poetico-filosofico.

Racconto-lezione numero uno, Einstein. Il primo capitolo riguarda il percorso che portò di Einstein a formulare «la più bella delle teorie», cioè la relatività generale. Anche chi non sa nulla della materia si aspetterebbe qualche informazione in più, un tuffetto qua e là in qualche argomento più sfizioso. Gli aspetti fondativi della relatività, le intuizioni che ne hanno reso possibile la formulazione sono enunciati in maniera molto chiara in un tono carico di stupore e ammirazione, ma poi la vicenda è lasciata lì, quasi a mezzo. Dove c’è relatività - per uno che voglia spiegare la fisica del secolo scorso - non può mancare la fisica quantistica. Se la teoria precedente è la più bella, questa dei quanti è a tutt’oggi la più misteriosa. Il fatto più strano di tutti è che funziona anche, pur essendo quasi il contrario di quella di Einstein. Rovelli è particolarmente colpito, quasi commosso, dal rapporto di stima che legò tra loro i padri di queste due meravigliose architetture scientifiche l’una opposta all’altra, ma una spintarella in più che ci permettesse di varcare almeno la soglia di casa non ci sarebbe dispiaciuta.

 

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Ne sappiamo ancora troppo poco. E lo stesso ci verrebbe da scrivere sui tre capitoli successivi, sull’architettura del cosmo, le particelle e i grani di spazio. Sono molto utili per chi fosse rimasto a pensare l’universo come un grande contenitore in cui stelle e pianeti galleggiano girando vorticosamente dentro l’una o l’altra galassia, ma oggi nemmeno alle scuole medie si azzardano a proporre un’idea di questo genere. Lo stesso valga per chi volesse capire come funziona l’atomo senza doverlo pensare con gli elettroni che inanellano orbite su orbite attorno al nucleo. In questo caso leggerebbe che questa immagine forse non funziona più: ma perché succeda è più suggerito che detto. Forse perché, come vien detto a un certo punto, per quanto chiare siano diventate alcune teorie che all’inizio parevano poco più che fantasticherie, ne sappiamo ancora troppo poco su tutto per poter scrivere qualcosa che vada al di là di un punto interrogativo.

Il momento perfetto è quando non si capisce. Ed è il grande merito del libro aver detto che quando le cose non si capiscono, quello è il momento interessante, il momento giusto per darsi da fare. Se non altro perché, per arrivare davvero a capire cosa ci sia che non va in una teoria, bisogna averci passato tanto tempo dentro. Ed aver fatto i conti con certi risultati che dire sconcertanti è come dire niente. Ad esempio, quando  qualcuno - uno scienziato coi fiocchi come Rovelli - ci venisse a dire che non esiste nulla nell’universo che non sia interazione (ovvero sostenesse che anche “cose” come gli elettroni esistono solo quando vanno a sbattere contro qualcos’altro, che però inizia anche lui ad esistere solo al momento dell’urto. E come gli elettroni tutto il resto) quando uno scienziato - ripetiamo - ci dimostrasse che le cose vanno proprio come abbiamo detto, ma affermasse al contempo di non sapere esattamente perché succede tutto questo, allora uno si domanda quanti anni di studio gli ci vorranno prima di potersi orientare in questo universo così fascinosamente strampalato. E per entrare nelle teorie che lo descrivono, che spesso - come il famoso “modello standard” che dovrebbe dar ragione del funzionamento dell’atomo - sembrano più un patchwork a singhiozzo che una bella stoffa pettinata e regolare.

 

 

Qualche buona metafora concettuale. Ma forse, più che nel fatto di presentare diversi sistemi di pensiero sull’universo e sulle particelle, questo libro è utile perché potrebbe rinnovare il nostro parco di immagini e di metafore. Sapere che lo spazio non è un vuoto ma un insieme di campi elettromagnetici o gravitazionali che sberluccicano come la superficie del mare nella vampa d’agosto, o trovarsi a ragionare sul rapporto fra il calore e il tempo (quando il calore non varia il tempo non esiste, sostengono alcuni), o tornare all’idea detta sopra, di un universo fatto solo di eventi (scontri, collisioni, entrate in orbita) e non di cose, tutto ciò ci permette di pensare che il luogo in cui ci troviamo è assai diverso da quello che abbiamo ereditato dalle generazioni precedenti. Uscendo di casa potremmo pensare di trovarci altrove, anni luce lontani da qui, da dove credevamo di essere.

E, anche senza aver studiato molto, questa idea ci permette di starci dentro meglio, di volergli più bene a questo intrico di forze, di pacchetti di energie, di stelle che collassano e rimbalzano per miliardi di anni (che poi non sono nemmeno tutti uguali - gli anni - da una parte e dall’altra del cielo) senza che noi neanche ci accorgiamo. Il Big Bang non è, in genere, argomento di conversazione in tram. Però venire a sapere che forse il nostro non è neanche stato il primo ci potrebbe rassicurare. Se il gran botto ha già funzionato, se altri universi sono già cresciuti in buona salute fuori del nostro (ma dove? o da quando? e che vuol dire “fuori del nostro universo”? non lo sappiamo) perché mai proprio questo qui dovrebbe risultare difettoso.

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