Come ha suonato Morgan al Druso Averlo sul palco fa bene e fa male
Enrico Gabrielli a un certo punto l'ha guardato sorridendo e scuotendo la testa: stava tentando un solo alla tastiera, Morgan, ma le dita non lo seguivano. Del resto l'aveva detto, l'eccellente leader (con sax) dei The Winstons, dall'alto della sua giacca vintage con pelo sintetico, annunciando l’ex Bluvertigo «con tutto ciò che di positivo, e negativo, comporta». Fino a quel momento il power trio aveva dato un’ottima prova: potenza, precisione, atmosfera. E sigarette a ciclo continuo. Non si dovrebbe fare, ma il rock senza cicche è come il tiramisù senza mascarpone. Roberto Dell’Era, con una mise che ricordava Lou Reed, era perfetto; Lino Gitto, fascetta sulla fronte da tennista d’antan, ha dato al charleston una personalità degna del Nick Mason (Pink Floyd) dei tempi d’oro. Sul pubblico si è riversato un organismo sonoro incessante, catapultato nel 2017 direttamente dai primi ‘70. Una specie di navicella di Interstellar farcita di psichedelia, sixties, prog, scuola di Canterbury.
Sembrava di assistere a un Live in Pompei senza rovine. Poi Morgan. Di positivo c’è stato tanto anche con lui, diciamolo. Morgan sa suonare. Il suo essere sopra le righe, però, non sempre funziona. Parte in sordina con due uova shaker, poi prende possesso del palco, suona di tutto e di più, canta con risultati altalenanti. In scaletta i pezzi che ama di Roxy Music (Love si the drug su tutti) e Bowie (Heroes e Fame). Commovente e riuscita la sua Altrove, da Canzoni dell’appartamento. Era il 2003 e cantava «Ho deciso / di perdermi nel mondo / anche se sprofondo / Lascio che le cose / mi portino altrove / non importa dove». Ma con Un ottico di De Andrè esagera. Gabrielli non pecca di miopia: c’aveva visto lungo e aveva preparato il pubblico. L’ego di Morgan, però, è anche un po’ generosità, alla fine. Si sorride e gli si vuole comunque bene.