«Il figlio down che non volevamo ci ha dato una gioia sconosciuta»
«Non lo volevo questo bambino. Il terzo. Già con gli altri due ero tiratissima, tra casa, lavoro, scuola. E poi mio marito aveva avuto problemi di lavoro e temevo che se si fossero ripresentati non ce l’avremmo fatta ad affrontare tutte le spese e a pagare il mutuo della casa». Parla con in braccio il figlio inatteso e in un primo tempo non voluto, la giovane mamma che ha accettato di raccontare la sua incredibile storia nella sede del «Centro di aiuto alla vita» di Novate (Merate, Lecco) con il marito e gli altri due figli, che allegri e chiassosi giocano spensierati nella saletta accanto. Con loro c’è la responsabile del servizio di accoglienza del Cav, Silvana Ferigutti, che con la famiglia ha condiviso ogni momento di questa turbolenta e straziante storia, fortunatamente a lieto fine.
La richiesta di aiuto del papà al sacerdote e al Cav. «È stato il sacerdote della mia parrocchia, a cui avevo chiesto aiuto per convincere mia moglie a non abortire, a indicarmi il Cav - racconta il papà -. Forte della fede che avevo ritrovato dopo un lungo e tortuoso percorso, ero convinto che quella fosse una vita e non volevo che mia moglie compisse quel gesto. Dio c’è davvero, le dicevo, vedrai che in qualche modo faremo». «Io invece ero decisa ad abortire - racconta lei con il viso improvvisamente bagnato di lacrime -. Ero disperata, confusa, angosciata. E anche arrabbiata: con lui, con i nostri genitori, con il mondo, con Dio, con tutti». Quando la coppia scopre di aspettare un altro bambino, nessuno, eccetto il papà, prende in considerazione l’ipotesi di tenerlo.
«Tutti mi dicevano che ero matta a tenerlo». «La mia migliore amica mi diceva che ero matta a portare avanti la gravidanza - continua la donna - Anche i nostri genitori, che già erano poco disponibili con gli altri due figli, davano per scontato che non l’avremmo tenuto e anzi continuavano a fare pressioni perché abortissi». Le volontarie del Cav, contattate dal marito, fanno una prima visita a casa della coppia e poi una seconda. «Trovammo una donna dilaniata dal dolore, letteralmente con l’acqua alla gola», ricorda con un brivido Silvana Ferigutti. La giovane mamma però non vuol sentire ragioni. È decisa ad abortire e fissa l’appuntamento in ospedale, al quale si presenta da sola («Le avevo detto - dice il marito - che se proprio voleva farlo, non l’avrei accompagnata»). Sul lettino dell’ambulatorio, con l’ecografo che fa risuonare il battito veloce del piccolo, la donna piange a dirotto. «“Almeno lo guardi”, mi disse il medico che mi stava facendo la visita. Ma non me importava niente e per tutto il tempo, anche se piangevo, ho tenuto la testa voltata».
«Dopo aver fissato la data dell’aborto, non mi presentai». Passano i giorni e arriva la data fissata per l’intervento di interruzione di gravidanza, ma la donna non si presenta all’appuntamento. «Sapevo che in fondo non avrebbe trovato la forza di farlo», confida il marito. «Non c’era fretta - dichiara invece lei - del resto avevo ancora un mese di tempo...». Il tarlo del dubbio, la paura del senso di colpa, nel frattempo si insinuano in lei e sollevano la domanda che poi la spingerà a cambiare idea: «Come mamma, posso fare una cosa del genere?».
La decisione di tenerlo e la serenità ritrovata. La coppia ritrova poco per volta la serenità perduta. E facendosi forza, affronta con rinnovato coraggio il percorso delle visite prenatali. Il peggio sembra ormai alle spalle. Insieme i coniugi hanno attraversato il fuoco e ne sono usciti esausti ma temprati. Non sanno, non possono immaginarlo, che un’altra terribile prova li aspetta al varco. La batosta arriva con i primi accertamenti. Il Bitest, uno degli esami prenatali, sentenzia che la possibilità che il bimbo sia affetto dalla sindrome di Down è di 1 su 4. Altissima. L’esame successivo, quello della translucenza nucale, non fa che confermare l’infausta probabilità. Una mazzata potentissima per la coppia, che di nuovo precipita in un baratro se possibile ancora più buio e profondo del precedente.
Gli esami dicono che il bimbo ha la sindrome di Down. «A quel punto sono crollata - racconta la donna senza riuscire a trattenere le lacrime - anche perché il medico ci aveva fatto capire che con un esito del genere c’erano ben poche speranze che il bimbo potesse nascere sano. Decisi di fare l’amniocentesi: nel caso in cui il bimbo fosse risultato malato, questa volta avrei abortito per davvero». L’esame conferma purtroppo i sospetti con una diagnosi senza appello: Trisomia 21, ovvero sindrome di Down. Nello studio del medico che comunica loro la notizia cala il silenzio e un’ondata di gelo paralizza i genitori. Mentre il marito si prende la testa tra le mani («Non avevo cambiato idea, ma è chiaro che ero spaventato»), il ginecologo spiega la prassi dell’aborto terapeutico e avverte la coppia che ha una settimana di tempo per decidere. Inutile dire che sarà per tutti la settimana più infernale di sempre. Affranto il papà, disperata la mamma, angosciate le volontarie del Cav. Solo i parenti e gli amici continuano imperterriti a far pressione sulla coppia perché si «liberi» a maggior ragione del problema.
L’angoscia di un’altra terribile decisione da prendere. Nel buio della disperazione che attanaglia la donna, ad un certo punto si accende una luce improvvisa. «È successo quando il medico mi ha spiegato cosa sarebbe successo e cioè che mi avrebbero indotto le contrazioni e che avrei dovuto partorire il mio bambino per poi lasciarlo morire - racconta la mamma - Quando mi sono immaginata la scena, ho realizzato che non avrei mai potuto farlo». E così la coppia decide per la seconda volta di portare avanti la gravidanza ma con più timori di prima. «Avevamo accettato di avere un figlio Down, ma non sapevamo con che livello di gravità della malattia avremmo avuto a che fare - spiega - E così, per non arrivare impreparata, cominciai ad informarmi in internet e a entrare in contatto su Facebook con i gruppi di genitori con bambini disabili. Alcuni di loro li ho persino incontrati».
L’incontro con mamme di bimbi disabili sorridenti e coraggiose. «Ho conosciuto alcune mamme, ho parlato con loro, e devo dire che al contrario di quanto mi immaginavo, non ho incontrato donne tristi e depresse ma coraggiose e sorridenti, che mi incoraggiavano ad andare avanti. Questo mi è stato di grande conforto, anche se poi la notte tornavo ad avere mille paure e gli incubi si popolavano di mostri». Il bimbo infine è nato, prima del termine, e non ha pianto quando è venuto alla luce. «Me lo avevano detto - precisa la mamma - ma ci sono rimasta male lo stesso. Subito ci siamo scontrati contro lo scoglio della burocrazia, ma poco per volta siamo tornati alla vita di tutti i giorni con qualche incombenza e difficoltà in più. Nostro figlio sta tutto sommato bene, anche se spesso viene ricoverato in ospedale per i problemi più diversi. È vivace e vitale, ma i suoi ritmi di crescita sono diversi da quelli cui eravamo abituati con gli altri figli. Proprio per questo la sua più piccola conquista è per noi fonte di immensa gioia».
«Abbiamo scoperto un altro mondo e siamo felici». Come due sopravvissuti, che sono usciti pesti e malconci da una tempesta, i coniugi guardano oggi all’inferno che hanno affrontato con un sospiro. «Detto così sembra banale, ma abbiamo capito che alla fine non tutto il male vien per nuocere e che anche la tragedia più devastante porta con sé aspetti positivi. Basta saperli cogliere, che la forza poi, se non ce l’hai, alla fine viene. La nascita di nostro figlio ci ha fatto scoprire un mondo che non conoscevamo, ci ha insegnato a non dar niente per scontato e a dare un altro senso alle cose. E questo riempie la nostra vita di una serenità prima sconosciuta. Non sappiamo cosa ci attende e quali progressi nostro figlio riuscirà a fare. Viviamo giorno per giorno senza pensare al futuro. La fatica è tanta, è vero, come pure le difficoltà. Ma andiamo avanti. In fondo, come dice una mia cara amica, cos’è la normalità? Ognuno di noi ha un deficit, a tutti manca qualcosa».