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La commovente storia di guerra del tenente Guglielmo Cubellis

La commovente storia di guerra del tenente Guglielmo Cubellis
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Rilanciamo dal sito Romafelix (l'articolo è stato poi ripreso dal sito Piccole Note) un'esemplare storia di guerra che ha come protagonista il tenente Guglielmo Cubellis. Ferito in Croazia, l'ufficiale aveva chiesto di tornare al fronte nonostante avesse la possibilità di essere congedato. Nel 1943 fu destinato con la sua guarnigione in Albania, incaricato di presidiare un lembo di spiaggia adriatica e lì fu dimenticato dal comando. Qualche sparatoria senza conseguenze con i partigiani locali e la crescente consapevolezza che la guerra era ormai persa. Cubellis svolse il suo compito fino in fondo, obbedendo agli ordini, con umanità e rigore. Tanto da stroncare un giro di taglieggio ai danni degli albanesi messo su dal suo attendente.

 

Italian_army

 

Quel pomeriggio di agosto fu il capo villaggio che si trovava nei pressi del presidio italiano a recarsi al campo chiedendo di essere ricevuto. Era il capo dei partigiani locali, lo sapeva bene il tenente, e quella visita era ben strana.
Il capo villaggio entrò nella tenda del tenente e accettò una grappa. A sua volta porse del tabacco da pipa. Esauriti i convenevoli, il capo villaggio avanzò la sua richiesta: «Tu puoi dare fucili italiani per un giorno?».
Il tenente restò strabiliato: «Mi stai chiedendo di prestarti le nostre armi?». Gli rimase sulle labbra il seguito: «Proprio a te, a un partigiano!».
L’albanese ripeté la richiesta con innocenza. «Ma a che vi servono le armi?», chiese il tenente.
«Mia figlia si sposa», spiegò infine il vecchio.
Ci volle del tempo al tenente per capire. Era uso, in quel lembo di terra, che i matrimoni fossero celebrati come dei ratti. La sposa veniva rapita dal futuro marito e la sua famiglia doveva far finta di difenderla, sparare in aria e fare quanto più strepito possibile.
«Molte armi, molto onore!».
«Ci penserò» concluse il tenente.
Offendere il capo villaggio non si poteva, ma neanche cedere le armi al partigiano. Quella notte il tenente escogitò una soluzione e il giorno dopo salì sulla collina.
Entrò nella casa del capo villaggio, gli offrì del tabacco e ricevette la grappa di ginepro. «Io ti darò le mie armi, ma anche i miei soldati. Loro verranno il giorno del matrimonio alla tua casa e spareranno. Molte armi, molti soldati, molto onore».
Il vecchio chiuse gli occhi, aspirò una lunga boccata dal narghilè e disse: «Molti spari?».
L’affare fu dunque concluso.
Il giorno del matrimonio i soldati si presentarono al villaggio di buonora, con le decorazioni, chi ne aveva, e tutti con le armi lucide. Presero posizione davanti alla casa della sposa e quando un giovane a cavallo arrivò e se la portò via al galoppo sotto lo sguardo compiaciuto dei parenti, gli italiani cominciarono a sparare in aria producendo quanto più frastuono possibile. Il trombettiere infervorò gli animi suonando tutto il repertorio che conosceva, dalle marce militari alle arie di opera. I soldati entrarono completamente nella parte loro assegnata, salirono in groppa ai cavalli con gli albanesi, inscenarono caroselli, galopparono per le vie del villaggio.
La grande festa che seguì durò giorni. Gli italiani si ritrovarono a far festa, a bere vino e a mangiar dolci intrisi nel miele al chiarore della luna piena. E a ballare, imitando i giovani albanesi che volteggiavano nei loro curiosi gonnellini bianchi. Malgrado alcuni indossassero la divisa dell’esercito invasore in quel momento erano solo dei giovani con i medesimi occhi neri e ridenti dei loro compagni di festa.
Durante la cerimonia il giovane tenente sedeva accanto al padre della sposa al centro del cortile. Il vecchio capo villaggio indossava sulla camicia di lino bianca un gilet rosso riccamente decorato e una elaborata cintura, appariva pienamente soddisfatto e non nascondeva, sotto i folti baffi canuti, un sorriso compiaciuto. Al momento di congedarsi l’ufficiale ringraziò e il vecchio rispose: «La casa dell’albanese è di Dio e dell’ospite. Salam [pace ndr]». Il tenente capì che quella volta la parola era stata scelta nella sua accezione più letterale. Divisi dalla lingua, dall’età e dai rispettivi ruoli per quei due uomini e per la loro gente, la guerra era finita.
Passarono giorni di quiete e di nostalgia per la Patria lontana. Ma una mattina giunse il capo del villaggio a cavallo, insieme ai suoi figli e chiese di parlare da solo al comandante. Il tenente offrì la grappa e sorrise: «Un altro matrimonio?».
Il vecchio con un gesto deciso rifiutò il liquore. Questa volta i suoi modi mostravano l’autorevolezza di un capo: «Tedeschi ammazzare te».
Che voleva dire? Perché avrebbero dovuto ucciderlo? Certo, da tempo i tedeschi trattavano i soldati italiani con una certa sufficienza, «maccaroni, maccaroni». Li disprezzavano anche, ma da qui a ucciderli ce ne correva.

 

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