Come siamo cambiati

La grande tragedia ci ha reso migliori? Don Davide Rota: «Ho molti dubbi»

«Il Coronavirus ci ha obbligato a fare cose a cui non eravamo abituati, come lo stare in casa. Ma non è detto che tutto questo diventi necessariamente un essere migliori»

La grande tragedia ci ha reso migliori? Don Davide Rota: «Ho molti dubbi»
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di Ettore Ongis

Ci sono stati giorni in cui la vita era appesa a un filo e l’angoscia cresceva a ogni sirena di ambulanza. Settimane nelle quali ci si telefonava anche solo per sentire se il nostro amico o parente era stato risparmiato dalla tempesta. Ore nelle quali sembrava che tutto stesse precipitando. Poi, pian piano, è tornato il sereno. Il male si dimentica in fretta, per fortuna. Ma tutto quel dolore è servito a cambiarci? A mettere in fila le cose che contano e quelle secondarie? Ne abbiamo parlato con don Davide Rota, superiore del Patronato San Vincenzo, un prete in prima linea che ha provato sulla sua pelle la drammatica esperienza del Covid.

Don Davide, la tragedia ci ha reso migliori?

«Non lo so. Semplicemente ci ha obbligato a fare cose a cui non eravamo abituati, come lo stare in casa. Ma non è detto che tutto questo diventi necessariamente un essere migliori».

Lei che cosa ha notato?

«Che il male, le disgrazie, i problemi in se stessi non hanno la forza di cambiare una persona. Un uomo cambia non sulla base di una spinta esterna, ma sulla base delle motivazioni interiori e soprattutto se ha un aggancio forte a qualcosa che non è provvisorio».

A che cosa si riferisce?

«A Dio. Ma quando lo dici la gente lo intende sempre come un’idea o una fissazione, mentre non è così: Dio è la realtà, la realtà buona, il bene totale, completo, assoluto che nel mondo c’è. Se tu sei agganciato a lui puoi passare in mezzo al fuoco, all’acqua, alle disgrazie, ma non perdi la bussola. Se non è così, al massimo la disgrazia può farti capire alcune cose, ma non ti dà la forza di uscirne fuori».

Ma di tutto il nostro sforzo per dire che “andrà tutto bene”, “ce la faremo” e così via, che cosa è rimasto?

«Sono auspici da lasciar dire ai bambini, loro possono pensarlo disegnando arcobaleni, ma come si fa a credere a queste cose? Non è vero che è andato tutto bene. La Bergamasca ha perso cinquemila persone, ha visto seppellire in modo disumano nonni, padri e madri: che cosa è andato bene? La battaglia col virus l’abbiamo persa, il virus da noi ha prodotto tutta la devastazione di cui era capace e non abbiamo potuto far altro che subirla».

Ma si può imparare da questa vicenda?

«Certo, si deve. Ma il problema è come. E secondo me il mondo di oggi non ha l’aggancio giusto con la realtà che gli permette di cambiare le cose. Se il cambiamento prodotto è essere stati in casa a fare il pane, vabbé… È una cosa bella, ma ci vuol ben altro, santo cielo».

Com'è andata al Patronato?

«Anche i miei hanno dovuto subire due mesi di clausura e di totale mancanza di fondi e non sono esplosi, non hanno perso la testa. Sono stati fin troppo bravi. Ma adesso sono già tornati come prima, travolti dai loro problemi, incasinati come sempre».

L’intervista completa a pagina 8 del numero di PrimaBergamo in edicola fino al 21 maggio, oppure sull'edizione digitale QUI.

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