Le parole da scolpire nell'oro della gente comune di Lesbo
Si propone Lesbo e i suoi abitanti per il Nobel della pace. Perché è il primo lembo di terra che è visto da chi sta attraversando il mare su imbarcazioni precarie e perché è quel lembo di terra che non li rispedisce indietro, ma tenta di salvare chi può. Senza fare troppo caso ai numeri degli arrivi, semmai piangendo i numeri confusi degli scomparsi, di quelli scivolati prima di tornare a camminare. Sono persone normali, gli abitanti di Lesbo che vedono arrivare ogni giorno i disperati del mare. I loro discorsi sono quelli di chi vive davvero l’emergenza, direttamente e senza guardare ai dati statistici. La CNN ha raccolto una serie di testimonianze, da cui si evince chiaramente che i Nobel sono l’ultima cosa che può tornare utile, ora.
Aimilia Kamvisi ha 83 anni. Nonostante l’età, è la nutrice dei bambini più piccoli e di quelli già adolescenti: «Sono come figli miei, nipoti miei. Apparteniamo allo stesso pianeta, sotto lo stesso Dio». Non riesce a credere all’atteggiamento di chiusura di alcuni paesi europei. «Guardo la televisione, lo so. Non hanno sentimenti umani? Non hanno dei cuori?», si domanda.
Come lei, anche Thomas Zourzouvilis si dà da fare. Thomas è un pescatore. Lui il mare lo conosce bene, per questo abbandona le sue reti, quando vede un’imbarcazione in difficoltà. Dice che chi guida i gommoni dalle coste turche non sa niente del mare. «Qualcuno li deve pure aiutare. Non c’è altro da fare».
Poi c’è Maria Androulaki, una mamma. Prima che arrivassero le ong e le politiche fatte su misura, dare un passaggio ai migranti era definito “traffico di esseri umani”. Lei, però, un passaggio lo dava ugualmente. Vedeva camminare bambini per chilometri e chilometri e quando li guardava negli occhi riconosceva lo sguardo dei suoi figli. Sapeva che stavano camminando per andare a Mitilene, il principale centro dell’isola, per essere registrati. Sapeva che stavano lottando per restare vivi. Oggi non vuole sentire parlare di premi, che siano Nobel o meno. «Saremmo dei mostri se non facessimo questo. Perché dovremmo essere premiati? Perché siamo esseri umani? Non ha alcun senso».
Stratis Valamios è un pescatore, come Thomas. Ricorda ancora il 28 ottobre 2015. Era fuori in mare, per pescare, quando ha udito le urla dei primi uomini in mare. «Cos’altro avrei dovuto fare? Pretendere di non vedere? Di non sentire?». Ma le onde erano grosse, quel giorno, e non riusciva ad avvicinarsi al gommone pieno di migranti. È un’immagine che lo tormenta ancora. Non pensava che fare il pescatore lo avrebbe portato a tirare fuori persone dall’acqua. Quello che fa non è una scelta, dice. Non è niente per cui valga la pena di essere elogiato, o premiato. Fa parte della natura umana.
Le ginocchia di Despiona Zourzouvilis non sono più quelle di una volta, lei lo sa bene, però le maledice lo stesso, quando sente le urla sotto gli scogli e non può fare niente, perché non riesce più a saltare da un masso all’altro. Despiona è figlia di una rifugiata turca, sa cosa vuol dire ricominciare tutto in un’altra terra. «La mia mente va indietro di anni, perché mia madre è arrivata qui come rifugiata, dalla Turchia. Vedevo le persone camminare, inzuppate d’acqua. È un dolore profondo. Mi sento come se il cuore si rompesse. Come se stessi rivivendo il passato, un’altra volta». Fa quel che può, offre acqua, tramezzini. Offre acqua fresca quando fa troppo caldo. Come tutti gli abitanti dell’isola, vecchi e meno vecchi, Despiona tende una mano, là dove l’Europa finge di non guardare.