Perché fa notizia che gli operai si trovino a pregare in fabbrica
Fa certamente piacere che alcuni operai di una fabbrica di Torino si trovino ogni giovedì a pregare dentro lo stabilimento. Mezzoretta - tra le 8 e le 8 e trenta - per dire il rosario. Ne dà notizia VaticanInsider aggiungendo che si tratta di «una delle prime “cellule” di “Impresa Orante”, l’iniziativa lanciata da Mariachiara Martina, imprenditrice torinese, supportata – per questa vicenda - dall’Opera dei Giuseppini del Murialdo».
Per sapere cosa sia e cosa proponga “Impresa Orante" basta cliccare qui: è un tentativo di diffondere la pratica della preghiera nei luoghi di lavoro. La preghiera dei cristiani, si immagina. Perché i mussulmani hanno già ottenuto da tempo degli spazi per poter pregare in diverse fabbriche. Soprattutto, se non andiamo errati, nel NordEst. Ma se si tratta di “gente venuta da fuori”, cui si concede che abbia i suoi riti e il suo folklore, la cosa non turba più che tanto l’opinione pubblica: perché si tratta, appunto, di «altri». Che hanno diritto di digiunare nel mese di Ramadan, mentre fra noi chi digiuna due giorni l’anno fa un po’ specie.
Che si mettano a pregare i cattolici autoctoni suscita qualche scalpore perché l’evento - oltre a suonare irrituale - potrebbe interferire con la vita nazionale, richiedere provvedimenti legislativi a favore della laicità dell’impresa, suscitare interrogazioni parlamentari sull’aspetto retributivo e pensionistico della vicenda. Le solite cose. Per il momento pare invece che la cosa fili via liscia: si entra (chi vuole) mezzora prima, ci si riunisce attorno a un tavolo (o anche no), si dicono le preghiere. Cioè si fa quel che si è sempre fatto da che mondo è mondo prima della rivoluzione industriale.
Se ci pensiamo bene, l’unico filo diretto che lega noi all’età di Nerone passando per la lotta delle investiture e il Sacro Romano Impero sono le preghiere dei cristiani ripetute identiche dalle catacombe alle fabbriche. Alcune anche da prima. Quando il Papa dice messa in San Pietro, di solito usa il canone che per due volte si richiama a persone dei primi secoli come fossero presenti in piazza. (Qualcuno direbbe: non “come se”. Presenti in piazza, ma senza esser passate dai check points). Oltre agli apostoli, ai primi papi e ad alcuni celebri vescovi ricorda Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino, Pietro, Felicita, Perpetua, Lúcia, Agnese, Cecilia, Anastasia e gli altri che, per essersi riuniti a pregare secoli fa furono trucidati, gettati in pasto alle belve, arrostiti su una griglia. Oltre ai testi dei poeti - che però non tutti recitano ogni mattina o alla sera prima di addormentarsi - sono solo i loro nomi a esser rimasti vivi da allora.
Dunque che notizia è che ci si riunisca per pregare in fabbrica? La notizia è che secondo l’opinione comune pregare fuori di chiesa o lontani da casa sia un gesto insolito. Una cosa un po’ stravagante, per dirla con Vaticaninsider. Anni fa Andrej Siniavskij, uno scrittore russo che anche per aver ricordato il valore della preghiera si buscò diversi anni di lager prima di essere mandato in esilio, scriveva, istituendo un confronto fra il modo di vivere attuale (cioè dell’Unione Sovietica negli Anni Sessanta) e quello dei contadino russo:
Persino il monotono rituale del pasto (in confronto col brodo francese il rum di Giamaica) faceva parte di una cerchia di nozioni dal significato universale. Osservando il digiuno e le feste, l'uomo viveva secondo il calendario di una storia comune che cominciava da Adamo e finiva col Giudizio Universale. […]
Il contadino manteneva un legame permanente con l'immensa creazione del mondo, e spirava nelle profondità del pianeta, accanto ad Abramo. Invece noi, scorso il giornale, moriamo solitari sul nostro divano angusto e superfluo. E in quel momento nessuna informazione ci serve. L'informazione diventa per noi come un paio di brache di panno estero [leggi: un paio di Jeans, ndr]. Un motivo per metterci in mostra, e basta. Dove va a finire tutto il nostro orizzonte, tutta la nostra capacità ricettiva quando ci togliamo i calzoni o ce li sfilano di dosso? Oppure quando portiamo il cucchiaio alla bocca. Prima di impugnare il cucchiaio, il contadino cominciava col farsi il segno della croce e con questo solo gesto riflesso si legava alla terra e al cielo, al passato e al futuro. (Andrej Siniavskij, Pensieri improvvisi. Traduzione italiana, Jaca Book, Milano, 1969).
Che la cosa riprenda a Torino non può che rallegrarci. Ma abbiamo la sensazione che, indipendentemente da “Impresa Orante” la pratica non sia stata del tutto trascurata in anni recenti.