L'uomo che sul ponte dei suicidi dava agli uomini un'altra chance
Per 23 anni, il sergente Kevin Briggs ha svolto un lavoro insolito e, a volte, incredibilmente e singolarmente gratificante: pattugliava l'estremità sud della Marin County, dove si trova il Golden Gate Bridge di San Francisco. È il secondo ponte per suicidi del mondo, dopo il cinese Nanjing Yangtze River Bridge: dalla sua apertura, si sono gettati da qui più di 1600 suicidi, di cui 46 solo nel 2013. Ma, sempre nel 2013, 188 persone sono tornate oltre il parapetto, per dare un'altra chance alla vita, grazie a ufficiali come Briggs. In una conferenza TED Talks del marzo 2014, Kevin Briggs condivide le storie di coloro con cui ha parlato, e che ha ascoltato, in piedi al limite della vita. Con un consiglio, forte e di speranza, per coloro i cui cari potrebbero contemplare l'idea del suicidio. Una nota: molte soluzioni sono state discusse per diminuire il numero di suicidi dal ponte. Una delle misure adottate è stata quella di chiuderlo ponte ai pedoni la notte. L'installazione di barriere di contenimento per i suicidi è stata contrastata dagli alti costi, dalle difficoltà tecniche e dall'opposizione dell'opinione pubblica. Nel giugno 2014, Il Consiglio direttivo del Golden Gate Bridge ha deciso all’unanimità di stanziare 76 milioni di dollari per installare reti di protezione anti suicidio sul ponte: venti milioni provengono dai pedaggi pagati dagli automobilisti per l’attraversamento, lo Stato ha promesso 7 milioni, gli altri saranno fondi federali. Ecco l'intervento di Keving Briggs.
[Sottotitoli in Italiano disponibili all'interno del video]
Di recente, sono andato in pensione dalla California Highway Patrol (letteralmente la Pattuglia delle autostrade della California) dopo 23 anni di servizio. La maggior parte di questi l’ho spesa pattugliando l’estremità sud della Marin County, che include il Golden Gate Bridge. Il ponte è un’icona architettonica, conosciuta in tutto il mondo per la meravigliosa vista di San Francisco, l’Oceano Pacifico e la sua architettura ispirata. Sfortunatamente, è anche un magnete per i suicidi, essendo uno dei posti più utilizzati del mondo. Il Golden Gate Bridge aprì nel 1937. Joseph Strauss, capo ingegnere in carica alla costruzione del ponte, una volta disse che «il ponte è praticamente a prova di suicidio. Il suicidio dal ponte non è funzionale, né probabile». Ma, dalla sua apertura, più di 1600 persone sono andate incontro alla propria morte proprio da qui. Alcuni pensano che il viaggio fra le due torri ti porti in un’altra dimensione. Il ponte è stato romanticizzato al punto che si dice che la caduta da esso ti liberi da tutte le preoccupazioni del dolore, e che l’acqua là sotto ti purifichi l’anima. Ma fatemi dire quello che accade quando il ponte è utilizzato come mezzo per suicidarsi. Dopo la caduta libera, il corpo, in quattro o cinque secondi, incontra l’acqua ad una velocità di circa 75 miglia all’ora (circa 120 km). L’impatto frantuma le ossa, alcune delle quali forano gli organi vitali. I più muoiono all’impatto, gli altri generalmente si flagellano inermi nell’acqua e poi annegano. Non penso che coloro che scelgano questo modo per suicidarsi realizzino quanto sia spaventosa la morte a cui vanno incontro.
Questo è il cordone. Eccetto nella zona attorno alle due torri, misura 32 pollici (circa 81cm) d’acciaio paralleli al ponte. Questo è il punto in cui la maggior parte della gente sta prima di togliersi la vita. Posso dirvi dalla mia esperienza che quando le persone sono su quel cordone nel loro momento più buio è molto difficile riportarle indietro. L’anno scorso ho scattato questa foto, mentre una giovane donna stava parlando ad un ufficiale contemplando la sua vita. Voglio dirvi molto felicemente che quel giorno abbiamo avuto successo, riportandola dall’altra parte del parapetto. Quando iniziai a lavorare sul ponte, non avevamo un training formale. Lottando, trovi una tua formalità attraverso queste chiamate. Questo servizio non è nato solo per chi contempla il suicidio, ma anche per gli ufficiali stessi. Da allora, abbiamo fatto una lunga, lunga strada; ora, ufficiali veterani e psicologi preparano i nuovi ufficiali.
Questo è Jason Garber. L’ho incontrato il 22 Luglio dell’anno scorso, quando ho ricevuto la chiamata di un possibile soggetto suicida, seduto sul campo a metà della campata. Risposi, e quando arrivai vidi che Jason parlava ad un ufficiale del Golden Gate Bridge. Jason aveva solo 32 anni, ed era volato lì dal New Jersey. Inoltre, era volato fin lì in altre due occasioni dal New Jersey per commettere suicidio da quel ponte. Dopo circa un’ora passata a parlare, Jason ci ha chiesto se conoscevamo la storia del vaso di Pandora. Rievocando la mitologia Greca, Zeus creò Pandora dalla terra e le diede un vaso, e le disse di non aprirlo mai e poi mai. Un giorno, la curiosità si prese la meglio e Pandora aprì il vaso, da cui uscirono le piaghe e i dolori e tutte le specie di mali esistenti contro l’uomo. L’unica cosa buona nel vaso era la speranza. Jason poi ci chiese: «Cosa succede quando apri il vaso e dentro la speranza non c’è?», poi tacque per un paio d’istanti. Si appoggiò alla sua destra. Se ne andò. Quell’’uomo gentile, intelligente e giovane del New Jersey si era appena suicidato. Quella sera parlai con i genitori di Jason e nel mentre pensavo che non sapevo se mi ero comportato molto bene, e il giorno appena dopo la famiglia chiese una verifica su di me. I genitori di Jason avevano chiesto di fare così. Il rumore dei danni provocati dal suicidio s’incide su tanta gente.
Vi pongo questa domanda. Cosa fareste se un membro della vostra famiglia o un amico vi dice che vorrebbe suicidarsi? Cosa direste? Sapreste cosa dire? Nella mia esperienza non è solo la parola che pronunci, è l’ascolto. Ascoltare per capire. Non discutere, biasimare o dire alla persona che sai come si sentono, perché probabilmente non lo sai. E il semplice fatto che siate lì può essere il punto di svolta di cui hanno bisogno. Se pensate che qualcuno possa suicidarsi, non siate spaventati dall’affrontare la questione chiedendoglielo. Un modo per porre la domanda è questo: «Altre persone, in circostanze simili, hanno pensato di porre fine alla propria vita. Hai avuto questi pensieri?». E quello che viene detto da un amico può essere il giusto punto di svolta per loro. Altri segni a cui guardare: la mancanza di speranza, la convinzione che le cose siano terribili e non andranno mai meglio. La mancanza di aiuto, la convinzione che non si possa fare niente, il ritiro sociale e la perdita d’interesse per la vita.
Preparavo questo discorso un paio di giorni fa, e ho ricevuto una lettera da una donna a cui piacerebbe che vi leggessi la sua lettera. Ha perso suo figlio il 19 gennaio di quest’anno, e mi ha scritto un paio di giorni fa, ed è con il suo permesso e la sua benedizione che vi leggo questo. «Ciao, Kevin. Immagino che tu sia alla Conferenza TED. Forse sarebbe il caso di essere lì. Sto pensando che dovrei andare a piedi al ponte a fine settimana. Volevo solo scriverti una nota. Spero che la tua parola raggiunga molte persone, e che esse vadano a casa e spargano la voce con i loro amici, che a loro volta lo diranno agli amici, eccetera. Sono ancora abbastanza insensibile, ma noto più momenti in cui realizzo davvero che Mike non tornerà a casa. Mike stava guidando da Petaluma a San Francisco per guardare la partita dei 49ers con il padre, il 19 gennaio. Non è mai arrivato lì. Ho chiamato la polizia di Petaluma e la sera ne ho denunciato la scomparsa. La mattina successiva, due agenti sono venuti a casa mia e mi hanno riferito che l'auto di Mike era al ponte. Un testimone l’aveva osservato saltare giù alle 13:58 del giorno precedente. Grazie davvero per il fatto che voi state in piedi per coloro che sono, in un momento, troppo deboli per stare in piedi da soli. Chi non si è mai sentito triste senza soffrire di una vera malattia mentale? Non dovrebbe essere così facile farla finita. Le mie preghiere sono con voi e la vostra lotta. Il GGB, Golden Gate Bridge, dovrebbe essere un passaggio attraverso la nostra meravigliosa baia, non un cimitero. Buona fortuna per questa settimana. Vicky.» Non posso nemmeno immaginare il suo coraggio nell’andare al ponte quel giorno, e proseguire a piedi il sentiero che ha preso suo figlio, e anche solo il coraggio di andare avanti.
Mi piacerebbe presentarvi un uomo a cui faccio riferimento come esempio di speranza e coraggio. L’11 marzo del 2005, ho risposto alla chiamata radio di un possibile soggetto suicida sul marciapiede del ponte vicino alla torre nord. Ho guidato la mia moto sul marciapiede e ho osservato quest’uomo, Kevin Berthia, lì sul marciapiede. Quando mi ha visto, ha immediatamente attraversato il corrimano del marciapiede pedonale, ed è rimasto sul piccolo tubo che gira attorno alla torre. Per l’ora e mezza successiva, ho ascoltato Kevin parlare della sua depressione e della sua mancanza di speranza. Kevin quel giorno ha deciso per conto suo di tornare dall’altra parte del corrimano, e dare alla vita un’altra chance. Quando è tornato indietro, mi sono congratulato con lui: «Questo è un nuovo inizio, una nuova vita». Ma gli ho chiesto: «Cosa ha fatto sì che tornassi indietro e dessi alla vita un’altra possibilità?». Sapete cosa mi ha detto? «Tu hai ascoltato. Mi hai lasciato parlare e hai solo ascoltato».
Poco dopo l’incidente, ho ricevuto una lettera dalla madre di Kevin, e ho questa lettera con me, e mi piacerebbe leggervela. «Caro Mr. Briggs, niente cancellerà gli eventi dell’11 marzo, ma lei è una delle ragioni per cui Kevin è ancora con noi. Credo veramente che Kevin stesse piangendo per essere aiutato. Gli è stata diagnosticata una malattia mentale per cui è stato correttamente medicato. Adottai Kevin quando aveva solo sei mesi, completamente ignara dei suoi tratti genetici ma, grazie a Dio, adesso sappiamo. Kevin è a posto, come lui stesso ha detto. Ringraziamo veramente Dio per te. Sinceramente indebitati con te, Narvella Berthia» .E in fondo al foglio ha scritto: «PS. Quando ho vistato il San Francisco General Hospital quella sera, eri registrato come il paziente. Ragazzo, ho dovuto sistemare quella confusione». Oggi, Kevin è un adorabile padre e un membro contributore della società. Parla apertamente degli eventi di quel giorno e della sua depressione, nella speranza che la sua storia ispiri gli altri.
Il suicidio non è solo qualcosa che ho incontrato nel lavoro. È personale. Mio nonno si suicidò avvelenandosi. Quell’atto, nonostante abbia posto fine al suo dolore, mi ha sempre derubato della possibilità di conoscerlo. Questo è ciò che fa il suicidio. La maggior parte delle persone suicide, o di chi lo valuta come possibilità, non vuole ferire delle altre persone. Vogliono solo porre fine al proprio dolore. Solitamente, è portato a termine in tre modi: sonno, droghe o alcol, morte. Nella mia carriera, ho risposto e sono stato partecipe di centinaia di malattie mentali e chiamate per suicidi attorno al ponte. Di tutti gli incidenti in cui ho partecipato, ne ho persi solo due, ma quei due sono già troppi. Uno era Jason. L’altro è stato un uomo con cui ho parlato per un’ora. Durante quel tempo mi strinse la mano in tre occasioni. Sull’ultima stretta di mano, mi ha guardato e mi ha detto: «Kevin, mi dispiace, ma devo andare». E saltò. Terribile, assolutamente terribile. Voglio dirvi, pensate che la maggior parte delle persone con cui entriamo in contatto su quel ponte non si suicida. Inoltre, le poche persone che sono saltate da quel ponte e sono vive e possono parlarne, l’1 o il 2 percento, hanno detto che nel momento in cui si sono staccate dal cordone si sono accorti che avevano fatto un errore e che avrebbero preferito vivere. Dico alle persone, il ponte non connette solo Marina a San Francisco, ma anche le persone. Questa connessione, o il ponte che facciamo, è qualcosa che ognuno di noi dovrebbe sforzarsi di fare. Il suicidio è prevenibile. Esiste l’aiuto. Esiste la speranza. Grazie di cuore a tutti quanti.