Come va la salute dei bergamaschi Più longevi, in buona forma, ma...
Alberto Zucchi è direttore dell’unità operativa complementare servizi epidemiologici dell’Ats (ex Asl) di Bergamo. Qualifica che equivale a quella del vecchio primario. Zucchi è un medico che alle diagnosi e alle cure ha preferito i numeri, per questa ragione si è specializzato in “Statistica medica ed epidemiologia”. Zucchi raccoglie migliaia di dati e segnalazioni, li controlla, li elabora e poi cerca di mettere in evidenza tendenze, cambiamenti, località. Confeziona statistiche che ci aiutano a comprendere meglio come, chi e dove colpiscono le malattie.
Si vive più a lungo e la possibilità di curare le malattie cresce. Se vent’anni fa un tumore al fegato era micidiale e al limite dell’incurabilità, ora non è più così. Ancora oggi è difficile guarire, ma ci si può curare, è possibile tenere a bada la malattia e così garantirsi una vita ancora lunga, e di discreta qualità. È un fenomeno che riguarda tutto l’Occidente, tutta Italia, ma noi in particolare ci riferiamo alla provincia di Bergamo.
Dottor Zucchi, lei ci dà buone notizie.
«Sì, sono dati statistici, l’aspettativa di vita continua a crescere, aumenta la capacità di cura delle malattie. Si allunga anche la speranza di una buona vita. Le do un dato: nel 1999 la mortalità per tumore fra i maschi era a 340 su centomila abitanti, nel 2015 eravamo scesi a 200. Per le femmine pure si registra una discesa, ma meno marcata, siamo passati da 170 a 140. Se poi guardiamo i diversi casi, abbiamo altre notizie positive. La mortalità per il solo tumore al polmone nei maschi è scesa da 95 su centomila abitanti (nel 2000) a 50 (nel 2015). Per le femmine era bassa (16 nel 2000) ed è rimasta pressoché invariata. Per il tumore alla mammella la mortalità è in leggera discesa, l’indice è passato da 31 a 25, sempre fra 2000 e 2015».
Lei studia la distribuzione delle malattie, fa l’epidemiologo.
«Sì, mi occupo di epidemiologia, osserviamo quante sono le patologie, le malattie, dove si sviluppano, la possibilità di curare, di guarire, l’incidenza sul territorio. Perché succede che una malattia si manifesta di più in una zona che in un’altra. A una certa età piuttosto che in un’altra. In una classe sociale…».
C’è tanto da studiare.
«Sì, per capire, per potere intervenire meglio. Ma in questi anni c’è stato un grande cambiamento».
Sarebbe?
«Fino a vent’anni fa il tempo fra la diagnosi di malattie gravi e la morte era stretto. Oggi quel tempo si va allungando sempre di più, la curabilità continua ad aumentare, tante malattie tendono a diminuire».
Ci fa un esempio?
«Le malattie del fegato, le “epatopatie” sono in diminuzione. Nella Bergamasca la popolazione era colpita in modo particolare da certe epatiti. Penso a quando ero bambino, mio padre era preside al collegio di Celana e la famiglia ha abitato là per qualche anno. Ricordo la suora che faceva le siringhe, le bolliva in cucina, poi andava a fare le iniezioni. Ma ci sono dei virus che resistono tranquillamente alla bollitura e così quella iniezione di penicillina (dico per esempio) ti curava la bronchite e ti inoculava magari un virus che attaccava il fegato».
Quali sono le patologie che colpiscono di più in Bergamasca che nel resto dell'Italia?
«I tumori allo stomaco e al fegato. Anche quelli del pancreas. È un fatto storico, che sta migliorando, ma che pesa ancora parecchio. Tra le ragioni – in parte sconosciute – c’è il tipo di dieta, l’alcol per esempio incide di sicuro».
Nonostante i progressi, le morti per tumore sono ancora tante.
«Sì, i dati parlano di un quaranta per cento sul totale dei decessi per i maschi e del 29,9 per le femmine. Ma la situazione, ripeto, tende a migliorare».
Anche perché oggi disponiamo di cure e di mezzi tecnologici impensabili in passato.
«È vero. Pensiamo alla Risonanza magnetica o alla Tac, ma anche alle ecografie. Le prime esperienze sono della fine degli Anni Ottanta. Sono strumenti che consentono di effettuare diagnosi molto precise rispetto al passato e anche molto precoci. Gli ultimi venticinque anni...»