«Cattolico» come un insulto e il politicamente corretto

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La puntata l’ho vista. Ci sono capitato sopra e mi sono fermato immaginando che Sgarbi ci parlasse di qualche mostra. Ma non era serata. C’erano lui, la Gruber a condurre, Claudio Sabelli Fioretti, giornalista, scrittore e conduttore radiofonico che ha sempre qualche trovata divertente, e una tale che non mi sembrava né la Marzano, né la Urbinati né le altre del giro di Lerner anche se profumava di Parigi lontano un miglio. Era infatti tal Gloria Origgi, filosofa che insegna all'École des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi nonché blogger del Fatto quotidiano, come ho saputo poi. Si doveva parlare di non so cosa «Stasera, però, - ha detto la Gruber - parliamo anche dell'uso delle parole e del fatto che spesso, in politica, si perde il senso del limite proprio delle parole». Argomento vecchiotto, però, visto che non c’era neanche Vallander su canale 39, sentiamo.

Il politicamente corretto, per Sgarbi e per l’altro, andrebbe tolto dalla circolazione. Mi è tornato in mente il caso di una famos(issim)a giornalista pasionaria del politically correct cui un garbato intervistatore chiese una volta di raccontare come un suo bambino, osservando un barboncino nero, le si fosse rivolto dicendo: «Mamma, quello è un cane di colore?». Fossi stato la signora mi sarei preoccupato, lei invece pareva tutta contenta. E infatti proprio di “negro” si discuteva e tutto sarebbe filato via liscio se Sabelli Fioretti, per celebrare l’appena raggiunta fine dell'ipocrisia e del perbenismo, non avesse sussurrato che gli pareva meglio dare del «negro a qualcuno e trattarlo bene che chiamarlo nero e trattarlo male…».

Controscena sulle altre facce contrariatine. Solo la fascinosa parisienne, presa la parola, osservava dapprima che su questo l'Italia è proprio rimasta indietro e poi sbottava: no, «Negro non si può più dire, punto e basta...». È una questione di linguaggio e di ethos e di un «modo di comportamento». La sua, proseguiva diretta chinandosi sul malcapitato, è proprio una posizione «da cattolico…» (faccia schifatissima) al punto che, «se mi avesse detto che è di Comunione e Liberazione ci avrei creduto».

Inserendosi tra la prima e la seconda parte Sabelli, avendo sorpreso la signora con le mani nella marmellata della contraddizione in factis (lo aveva insultato proprio mentre affermava che non bisogna insultare), infilava un timido in apparenza, ma feroce intellettualmente «a me cattolico non lo dice…» (o «non lo ha mai detto nessuno»), che lasciava l’altra ignara e libera di proseguire. Sollecitato dalla conduttrice lo Sgarbi, dopo essersi dichiarato l’uomo più querelato d'Italia, dapprima si produceva in un’appassionata difesa di Dolce e Gabbana contro la furia di Elton John, e poi terminava affermando che “cattolico” non si poteva considerare un insulto con la postilla, ovvia per l’uditorio, che non avrebbe tollerato di essere detto «di Comunione e Liberazione».

Tutti d’accordo, tarallucci e vino. Quando la Stefanenko a Elisir disse di camminare «come un mongolino» sui tacchi alti, tutte le associazioni dei Down intervennero immediatamente costringendo il conduttore a chiedere le pubbliche scuse della bellissima occhiverdina. Avessero fatto altrettanto i ciellini l’altra sera sarebbe venuto giù il mondo. O meglio non sarebbe successo niente perché le centraliniste avrebbero risposto che non capivano cosa ci fosse da arrabbiarsi.

Dov’è il problema? Forse, innanzitutto, nella configurazione sociale in cui si produce un insulto. Quando il principe Henry dette del “Paki” a un collega pachistano tutti si stracciarono le vesti come se avesse dato del “negro” a un collega “abbronzato” o come se uno avesse chiamato “sporco ebreo” un israelita. La British Arways dovette ritirare anni fa una pubblicità in cui vantava i prezzi bassi praticati alla clientela giocando sul fatto di essere la preferita degli scozzesi. Che, dicendosi offesi dalla secolare associazione alla parsimonia, invece di riderci su trovarono il modo di far qualche soldino querelando la compagnia. “Negro” per “nero”, “terrone” per “meridionale”, “rabbino” a un “ebreo” sono però insulti tutto sommato tollerabili tanto è vero che possono comparire rovesciati in contesti affettuosi. Si può chiamare “negro” un amico di colore proprio per dirgli che abbiamo superato, grazie a lui, gli stereotipi sui negri. O dare del “rabbino” a un amico ebreo che non abbia modo di pagare tutta la quota di una cena, perché pensiamo che quella degli ebrei o dei chiavaresi tirchi è una favola che ha fatto il suo tempo. Meteriale in disuso come il termine “matusa”, di cinquant’anni fa, usato da alcuni vecchi per mostrarsi linguisticamente aggiornati coi nipotini. Certo, non useremmo le stesse espressioni “in pubblico”, fuori dall’amicizia.

Altro è il caso di “cattolico” o “ciellino” usato per definire qualcosa di inaccettabile in generale, ossia non riferiti agli appartenenti ad uno o ad entrambi gli ambiti. “Ciellino” usato nel senso generale di “talebano”, “retrogrado”, “berlusconiano di merda” implica un rovesciamento culturale. Come “bandar" (scimmia) in quanto insulto velenoso rivolto a un lupo nel Libro della Giungla. Per la prof. Origgi, e probabilmente per l’École des Hautes Études in generale, “cattolico” equivale a “perverso”, “inaccettabile”. “Identitario”, nel lessico dell’ultimo libro di Houellebecq. Non è cioè un insulto: appartiene all’ambito delle constatazioni ovvie, dei dati di fatto nel pensiero degli uomini superiormente colti e avveduti. «Lei non ha un complesso di inferiorità - dice il medico a Fantozzi nella famosa scena -: lei è inferiore».

La questione, si vuol dire, non si può affrontare come caso particolare del problema del politically correct. Riguarda un paradigma culturale che si è ormai affermato, un clima di pensiero nel quale al momento di dare del cattolico (nel senso di “idiota”) a qualcuno non ci si accorge nemmeno di aver offeso i cattolici, oltre al destinatario specifico. Forse alla scuola di alti studi dovrebbero istituire una cattedra apposita per cercare di capire come sta questa cosa. Così poi vengono dalla Gruber e ce lo spiegano.

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