era il 1952

Dalmine, la storia di Gianpaolo Deponte: un treno di speranza da Capodistria

«Quando i miei genitori decisero di emigrare, partimmo con solo due valige. Prima tappa Trieste, nell'orribile campo profughi, senza intimità». La tappa a Verderio, poi a San Maurizio al Lambro. È arrivato a Dalmine per amore, quando ha sposato la moglie Lalla nel 1978

Dalmine, la storia di Gianpaolo Deponte: un treno di speranza da Capodistria
Pubblicato:
Aggiornato:

di Laura Ceresoli

Con la fine della seconda guerra mondiale, Capodistria fu compresa nella zona B del cosiddetto «Territorio libero di Trieste» amministrato dalla Jugoslavia. Così, tra il 1947 e il 1954, metà della popolazione italiana che non si riconosceva in questa nuova ripartizione, prese la via dell’esodo. Tra gli esuli c’era anche il dalminese Gianpaolo Deponte che all'epoca aveva solo quattro anni. Era il 1952 e la scelta dei suoi genitori di partire verso l'ignoto non fu semplice, ma necessaria. «Ho vissuto i primi anni della mia infanzia a Capodistria - racconta Gianpaolo -. I miei nonni erano agricoltori, possedevano tre o quattro aree in campagna appena fuori dal centro. Ho ancora in mente l’immagine di mia nonna che, a mezzogiorno, partiva con una ciotola di minestra in testa per portarla al nonno che lavorava nei campi. Quando i miei genitori decisero di emigrare altrove, partimmo con soltanto due valige e salimmo su un treno. La prima tappa fu Trieste, al campo profughi. Era un luogo davvero brutto e opprimente, si dormiva divisi solo da un lenzuolo, senza intimità. Per noi, che eravamo abituati a vivere in una casa spaziosa in mezzo alla campagna, era ancora più difficile adattarsi a quel posto orribile. Per fortuna siamo rimasti lì pochissimi giorni. Poi ripartimmo alla volta di Verderio. Mio padre Francesco aveva preso accordi con il suo amico Anacleto che era lì a prestare servizio come carabiniere e ci ha trovato un posto. Siamo rimasti in provincia di Como per quattro anni, poi ci siamo trasferiti a San Maurizio al Lambro».

Gianpaolo Deponte con la moglie Lalla Bellelli. In apertura, da bambino con il padre Francesco e la madre Anita

I ricordi d'infanzia di Gianpaolo sono un po’ sfumati, così come i racconti dei suoi parenti che hanno vissuto da vicino il dramma della guerra: «Non mi hanno mai parlato molto di quel periodo - spiega - forse per ritegno o per non riaprire ferite. So solo che mio nonno fece la guerra con gli austriaci perché Capodistria era sotto il loro dominio. Era una specie di sobborgo della grande città di Trieste separata da un breve tratto di mare e la maggior parte degli abitanti era di lingua italiana. Mio padre fu spedito dalle Ss in una caserma per fare l’aiutante. Se usciva a fare quattro passi la sera con mia madre Anita, aveva sempre qualche slavo alle spalle che lo inseguiva. Dopo la fine della guerra il problema era il lavoro. I miei parenti producevano verdura ed era sempre faticoso quando si doveva valicare il confine tra Italia e Slovenia perché giunti a Trieste bisognava dichiarare tutto e i titini avevano spesso da ridire sulle quantità. I miei genitori ora sono morti, però c’è ancora un pezzo della nostra terra laggiù a San Maurizio. Esiste ancora la casa costruita da mio nonno e dove attualmente vive mio zio, uno dei quattro fratelli di mio padre».

Giampaolo vive ormai a Dalmine da oltre quarantanni: «Ci sono arrivato per amore - esclama - è la città di mia moglie. Ci siamo conosciuti nel 1974 grazie a un mio amico di Cinisello Balsamo. All'epoca i genitori di Lalla (Bellelli, la moglie ndr) commerciavano vini e bevande, mentre io lavoravo e la sera andavo a scuola a Sesto San Giovanni. Quattro anni dopo ci siamo sposati e mi è venuto naturale trasferirmi da lei, a Dalmine».

L’articolo completo a pagina 40 del numero di PrimaBergamo in edicola fino al 5 marzo, oppure sull'edizione digitale QUI.

Seguici sui nostri canali