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Federica, ricercatrice a Singapore e il segreto per battere il cancro

Federica, ricercatrice a Singapore e il segreto per battere il cancro
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Da Dalmine a Singapore per studiare i meccanismi di divisione cellulare. Il suo lavoro, insieme a quello di altri ricercatori provenienti da tutto il mondo, potrebbe un giorno contribuire a trovare una cura per il cancro. Lei è Federica Natali, ha 26 anni, è di Dalmine e ha una grazia che non ti aspetti. Ha modi gentili, pacati e parla con entusiasmo del suo lavoro, della passione per la biologia: «Da piccola mi piaceva osservare la natura - spiega - raccoglievo fiori e arbusti e li sezionavo per capire come erano fatti. Ecco, mi piace capire come sono fatte le cose. Per esempio, amo molto la fotografia, ma non solo a livello di immagine, anche come funziona la macchina fotografica». Federica si è laureata in Biologia applicata alla ricerca biomedica alla Statale di Milano lo scorso febbraio, dopo aver frequentato il liceo classico al Sant’Alessandro di Bergamo. A metà luglio è partita per Singapore, dove resterà per quattro anni per lavorare a un progetto internazionale.

In cosa consiste la tua specializzazione?
«Si può lavorare con la biologia molecolare oppure clinica. Io non vedo farmaci, non li testo, non vedo materiale biologico del paziente. Studio i meccanismi di replicazione delle cellule».

Come è nata l’opportunità del dottorato a Singapore?
«Per la mia tesi ho lavorato un anno all’Ifom, l’Istituto Firc (Fondazione Italiana per la Ricerca sul Cancro) di Oncologia Molecolare a Milano. Lì mi hanno offerto una borsa di studio e così sono partita per Singapore, dove sono stata tre mesi. Hanno un progetto per studenti non ancora laureati e ti permettono di lavorare in laboratorio».

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Poi ti hanno riconfermata?
«Mentre ero là ho annusato la possibilità che mi proponessero di restare, e infatti così è stato. Ho accettato senza alcuna esitazione».

Com’è la vita a Singapore?
«È bella. Lì è tutto ordinato, pulito, sono molto rigorosi, orgogliosi di ciò che hanno creato, vogliono essere i primi in tutto. La città è sicura, c’è pochissima criminalità».

Nonostante sia una metropoli?
«Sì, anche se ci sono cinque milioni di abitanti per alcuni aspetti sembra di essere in Svizzera, clima a parte naturalmente. Ad esempio, lì è vietato mangiare il chewing gum in pubblico. Se ti scoprono ti multano. Dato che la maggior parte delle persone le sputava per terra, hanno deciso di vietarle addirittura».

La vita è costosa?
«Parecchio, sì. Loro non producono nulla, importano solamente, quindi costa tutto tanto, affitti compresi».

Ti piace la cucina di Singapore?
«Sì, è molto varia ed essendo una città internazionale trovi piatti di tutte le culture. La cucina singaporiana utilizza tanti ingredienti diversi, ma è tutto in brodo. Mi piace, ma mi mancano il Grana, il ragù, l’arrosto di mia nonna».

 

 

Dove andrai a vivere? Hai già trovato una sistemazione?
«Per ora starò in una casa condivisa, come ho fatto durante i primi quattro mesi. Stavo in una old chinese mansion con un malese, un francese, un indiano e un pakistano. Avevamo un solo frigo in cinque. Cercherò qualcosa di più spazioso, magari ancora in condivisione, ma con meno gente».

Cosa dicono i tuoi genitori di questa tua partenza?
«Sono felici e orgogliosi, ma sono anche dispiaciuti, visto che sono figlia unica».

E il tuo fidanzato?
«Lui parte insieme a me. È di Brembate, lavora nel controllo qualità di un’azienda in provincia di Milano. Si è licenziato e verrà con me, cercherà qualcosa da fare lì. Era venuto a trovarmi la prima volta e gli era piaciuta molto come città».

Cosa si fa lì nel tempo libero?
«Io esploravo, giravo, mi perdevo per questa grande città. Ci sono riserve naturali, dei bellissimi parchi perché, nonostante il caldo umido, i singaporiani fanno tanto sport. Ci sono quartieri ultramoderni e tecnologici e ci sono quartieri anni Settanta, con casette basse, librerie carine. Poi ci sono locali, discoteche, soprattutto nei piani alti degli edifici. Ci sono bar sul mare e i locali delle grandi catene come Starbucks e Costa Coffee. Diciamo che non ci si annoia».

E c’è gente di tutto il mondo...
«Sì, è una società multietnica. Puntano molto sui giovani. Gli ingressi comunque sono molto controllati, prendono una certa quota per etnia, ma una volta che sei dentro, non c’è razzismo e non c’è discriminazione alcuna».

Ti senti un cervello in fuga?
«Mi sento un cervello che parte per migliorarsi, per imparare. Poi però mi piacerebbe tornare in Italia, amo molto il mio Paese. Parto perché mi piace il progetto. Studierò l’evoluzione dei microorganismi agli stress in relazione al cancro. Il tumore è una situazione molto stressante non solo per il corpo, ma anche per le stesse cellule tumorali, attaccate dagli anticorpi che tentano di combattere la malattia. Così devono sviluppare nuove abilità per sopravvivere. Io studio le cellule del lievito, che hanno meccanismi simili a quelle umane, per cercare di capire questi processi. Lo scopo del progetto è quello di scoprire come agiscono le cellule tumorali per cercare di bloccarne i processi di replicazione».

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