Hashtag ergo sum, ovvero ancora sulla questione D&G

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Per chi ancora non ne sapesse niente diciamo che all’origine di tutto c’è un’intervista a Panorama in cui Domenico Dolce, cofondatore di Dolce&Gabbana, dice: «Non abbiamo inventato mica noi la famiglia. L’ha resa icona la Sacra famiglia, ma non c’è religione, non c’è stato sociale che tenga: tu nasci e hai un padre e una madre. O almeno dovrebbe essere così, per questo non mi convincono quelli che io chiamo i figli della chimica, i bambini sintetici. Uteri in affitto, semi scelti da un catalogo. E poi vai a spiegare a questi bambini chi è la madre. Ma lei accetterebbe di essere figlia della chimica? Procreare deve essere un atto d’amore, oggi neanche gli psichiatri sono pronti ad affrontare gli effetti di queste sperimentazioni». L’intervista si colloca - anche questo bisognerà dirlo - all’interno di una campagna di comunicazione del marchio, avente a tema la famiglia.

Probabilmente non sarebbe successo niente se Elton John, musicista inglese di larga fama, non si fosse ritenuto offeso dall’uso del termine «sintetico» riferito ai suoi «beautiful children» e alla IVF, ossia alla tecnica della fecondazione artificiale, da lui definita un «miracolo», che gli ha permesso di averli. Da qui la fatwa sul suo profilo Instagram: #BoycottDolceGabbana e il successivo putiferio, perché ogni personaggio che conta (o crede di contare) ha voluto agitare la sua manina davanti all’obiettivo dei social networks, per non rischiare di non esserci.

Chi ha difeso la libertà di opinione di Dolce, chi si è schierato dalla parte del cantante. Chi si è chiesto che cosa ne sia della libertà di opinione - con riferimento al recente caso di Charlie Hebdo, naturalmente -, chi si è indignato per lo spazio concesso a un pensiero così «arcaico» come quello dello stilista. Le fatwe degli indignati contro le fatwe altrui sono venute giù come la grandine. C’è chi ha affrontato la questione “gay o non gay” - anche nella versione “quale gay per un mondo libero e contemporaneo” - e chi quella “famiglia tradizionale vs famiglie d’altro genere”.  Non facciamo nomi: sono intervenuti tutti. Non riferiamo cosa è stato detto: di tutto.

E quindi tocca anche a noi manifestare il nostro non-pensiero, vergini come siamo - fino a qui - di servi encomi e di codardi oltraggi. Non-pensiero perché la nostra epoca non lo consente, il pensiero. Come non lo consentiva la vecchia Babilonia in cui le parole avevano perduto sia senso che significato. Oggi non si pensa più: si reagisce. Babilonia è una forma del mondo: quella in cui ci troviamo. Ci si colloca rispetto a frasi estrapolate da un contesto e incollate in un altro, o in altri mille, vorticanti attorno al nucleo vuoto che ne permette l’innesco. Non ci accorgiamo di essere perché ci accorgiamo di pensare - come sosteneva il vecchio Descartes. Prendiamo coscienza di noi perché messaggiamo: hashtag ergo sum. Senza nemmeno l’ergo, che implicherebbe comunque una deduzione logica.

Cosa significano (a cosa si riferiscono) oggi parole come figlio, sesso, padre, madre, natura, amore, artificiale e via discorrendo? Famiglia, per dirne un’altra. Significano una tale quantità di cose o di concetti che, per poter significare in modo univoco, devono ogni volta esser ricondotte a un ambiente preciso, al di fuori del quale vagano come esuli laceri e indifesi lontani dalla patria in cui sono nate, cui appartengono e di cui danno testimonianza.

Il cantante che se la prende per la parola «sintetico» e denuncia come «arcaico» il pensiero di Dolce in realtà manifesta tutta l’angoscia dovuta a un rimosso spinoso (non è ancora riuscito a far pace con l’idea di avere ottenuto i due figli per via sintetica, che preferisce chiamare «miracolosa») e, insieme, testimonia del terrore e della rabbia («Come osi..?», inizia il suo messaggio) per la presenza nel mondo di persone (ambiti culturali) che lo costringano a farci i conti. Non vuole che qualcuno pensi che i suoi figli siano meno che meravigliosi perché non vuol ammettere con se stesso di ritenersi - e ritenerli; ci dispiace ma è così - un prodotto sintetico e considera dunque nemici tutti coloro che - in qualsiasi modo e per qualsiasi ragione, anche remota o remotissima - gli suscitino quel pensiero. Senza un rimosso profondo non si giustificherebbe il tono da invettiva del messaggio. Chi non ha se stesso come nemico non li ha nemmeno fuori da sé.

Per questo provoca dolore l’invettiva, quella del cantante come quella di chi ha deciso di lasciare la maison per incompatibilità di vedute. Fa male l’isteria di chi ha deciso addirittura di bruciare i propri capi firmati con la “&” come se con questo potesse togliersi di dosso la lebbra di averli indossati. O, più ancora, di aver potuto pensare di indossarli senza averne preventivamente individuato il veleno. C’è sempre il rifiuto di sé all’origine dell’ingiuria e dell’anatema. E se è così diffuso, questo rifiuto di essere se stessi che si maschera col proprio ossessivo esporsi in maschera sotto le luci rutilanti del palcoscenico, il nostro mondo non ne vien fuori bene da questa faccenda.

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