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Il caso Contrada, spiegato bene

Il caso Contrada, spiegato bene
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È la notizia politico-giudiziaria con maggior risonanza di questi giorni: Bruno Contrada, secondo la Corte europea dei diritti umani, non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, poiché all’epoca dei fatti il reato non era sufficientemente chiaro. Ora, in attesa della pronuncia definitiva della corte d’appello di Caltanissetta del prossimo 18 giugno, la speranza per una revisione della sentenza di condanna è quanto mai prossima alla certezza. Ma chi è stato ed è Bruno Contrada? Perché il suo caso desta così tanta attenzione? E di cosa venne accusato?

La vicenda giudiziaria. Contrada (Napoli, 1932) è stato poliziotto, capo della squadra mobile della Polizia di Palermo nonché funzionario del SISDE (i vecchi servizi segreti italiani), fino a raggiungere alcune delle posizioni più importanti dell’intero apparato della sicurezza nazionale. Ma nel 1992 venne coinvolto in un’inchiesta giudiziaria che ne comportò l’arresto. L’accusa era di favoreggiamento e di collusione con le attività di Cosa Nostra, lo storico apparato mafioso siciliano. A sostenere questa tesi, vennero presentate dichiarazioni di alcuni dei più celebri pentiti di mafia e collaboratori di giustizia, come Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo. Secondo gli atti del processo, Contrada sarebbe stato indiretto partecipe, come talpa all’interno delle forze dell’ordine, di alcuni degli atti terroristici peggiori della mafia, come gli assassinii dei magistrati Falcone e Borsellino, le bombe di Via Georgofili a Firenze, l’autobomba esplosa in San Giovanni in Laterano, e altre ancora.

L'accusa. Nello specifico, riprendendo in mano le testimonianze di Buscetta e Mutolo, Contrada venne accusato di passare informazioni riservate sulle attività antiterroristiche della polizia alla mafia, nonché di aver favorito un tentativo di evasione dal carcere di Totò Riina (uno dei più celebri e pericolosi boss mafiosi) negli anni Ottanta. Tra i molti episodi, nelle testimonianze ne viene citato soprattutto uno: la notte tra il 4 e il 5 maggio del 1980 ci fu una grande retata a Palermo, durante la quale furono arrestati una quarantina di mafiosi. Poco prima dell’operazione, tutti i funzionari di polizia furono contattati dal questore Vincenzo Immordino, a parte Contrada. Vincenzo Immordino lo chiamò invece parlando di una rivolta al carcere, ma si trattava di un depistaggio perché circolavano già sospetti nei suoi confronti.

 

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La trafila processuale. Contrada venne dunque arrestato, e trattenuto in detenzione per 31 mesi. Venne rilasciato nel 1995 in occasione del processo di primo grado, il quale, nel 1996, lo condannò a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa (il Pm incaricato era Antonio Ingroia). Nel 2001, in seguito a richiesta di un secondo grado in appello, Contrada venne giudicato innocente, poiché il fatto non sarebbe sussistito. Ma già nel 2002 la Cassazione annullò la sentenza d’appello per vizi di forma (errori da un punto di vista procedimentale), e ordinò un nuovo processo di secondo grado. Quest’ultimo si concluse nel 2006 con la conferma della condanna di primo grado, confermata poi l’anno dopo anche dalla Cassazione. Dopo che nel 2008 vennero concessi a Contrada gli arresti domiciliari per motivi di salute, nel 2012 venne definitivamente liberato per fine della pena.

 

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La sentenza della Corte europea. Già nel 2008, però, Contrada si era rivolto alla Corte europea di Strasburgo, additando una violazione dell’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti umani, secondo il quale nessuno può «essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale». Da un punto di vista giuridico, si tratta del brocardo nulla poena sine lege, ampiamente accettato da secoli nell’ordinamento italiano, e per il quale qualsiasi atto commesso, se in quel preciso momento non era previsto come reato dalla legge, non può comportare una condanna per colui che l’abbia compiuto. La difesa di Contrada, quindi, consisteva nel far rilevare che all’epoca della commissione dei fatti ritenuti fondanti della condanna (cioè fra il 1979 e il 1988) non era ancora stata prevista dall’ordinamento italiano la fattispecie del reato di concorso esterno in associazione mafiosa; o meglio, per usare le parole della stessa Corte, «non era sufficientemente chiaro». E Strasburgo ha dato ragione a Contrada.

23 anni in carcere. In seguito alla pronuncia della Corte europea, lo Stato italiano dovrà risarcire Contrada con 10mila euro per danni morali e 2500 euro per spese processuali. In attesa del riesame della corte di Caltanissetta del 18 giugno, che a questo punto molto probabilmente rivedrà la condanna (ormai scontata interamente) di Contrada e obbligherà lo Stato ad un risarcimento ben più corposo. Una magra consolazione per Bruno, il quale ha dichiarato: «Ventitré anni di vita devastata non me li potrà ridare nessuno. Così come i 10 anni trascorsi in carcere».

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