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Sfavillante storia del Piper Club dove batteva il cuore del beat

Sfavillante storia del Piper Club dove batteva il cuore del beat
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Prendete un logoro cinema, un malridotto locale che pure le pellicole fanno le smorfiose ad entrarci. Aggiungeteci un diavolo di avvocato e una vecchia volpe dell’imprenditoria romana, che di cavilli e bilanci ne hanno piene le scatole. Avvolgete il tutto nella frenetica e imprevedibile società anni Sessanta, ma non quella del ’68 e del mistico pacifismo (quando nel mondo si era tutti americani o vietnamiti, tertium non datur), ma quella che ribolliva nel sottostrato urbano, che anelava al beat inglese ma doveva accontentarsi della canzone genovese. Guarnite a scelta con la calda voce di Louis Armstrong o con i migliori swing prodotti in Italia ma targati Liverpool. I poster di Andy Warhol o Piero Manzoni fanno parte del pacchetto, che piaccia o no. Bene, mescolare, anzi, agitare il più forte possibile, et voilà, ecco qui il Piper di Roma, uno dei più celebri (nonché longevi) locali d’Europa, che oggi festeggia le sue nozze d’oro con Roma e con il mondo.

 

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Tutto nacque in quello scantinato. 1965, inverno: in un tugurio che era ancora chiamato “cinema” solo nei registri del catasto, incastonato tra il quartiere Trieste e il Coppedè, in via Tagliamento 9, l’impresario Giancarlo Bornigia e l’avvocato Alberigo Crocetta, lì dove tutti altro non vedono se non polvere, sporco e inutilità, si figurano grandi concerti, serate indimenticabili e Roma che balla come indemoniata. In Inghilterra e negli Stati Uniti spopolava il beat, un nuovo modo di fare musica (e non solo) che mandava a quel paese solfeggi e scale ordinate in nome dell’istinto, dell’improvvisazione e della gioia di suonare. È vero, in Italia non c’è né il sassofono di Charlie Parker né la batteria di Ringo Starr, ma vale la pena tentare. In un batter di ciglia, quel desolato scantinato si trasforma in un locale d’avanguardia, dove sulle pareti campeggia l’espressione assente di Warhol e sul palco un microfono che promette scintille come in Italia non se ne erano mai viste.

Una sfavillante storia. Arriva l’inaugurazione, il 17 febbraio, e i proprietari, onde evitare sgraditi fallimenti fin dall’esordio, convocano i Rokes, capelluta e sbarazzina band inglese, a cui vengono affiancati i ragazzi dell’Equipe 84, che se vanno male i primi sono pronti a subentrare per riportare alla calma un pubblico che potrebbe esaltarsi allo spasmo tanto quanto inferocirsi a morte. Ma il gruppo britannico infiamma talmente gli spettatori che sarà la band italiana a dover adattare il proprio sound a quello dei colleghi. Inizia quella sera la storia del Piper, che originariamente avrebbe dovuto chiamarsi Peppermint, ma a causa dell’omonimia con un locale newyorkese, si decise di virare su un altro nome. Il Piper è il cuore pulsante del nuovo che avanza, il luogo dove la musica, per la prima volta, diveniva glamour e trasgressiva, qualcosa che solo l’unione fra il concetto della balera estiva di provincia e il ribollio delle voglie cittadine poteva far nascere.

 

Patty_Pravo_nel_1969

 

Il Piper è divertente, chiacchierato, al passo con i tempi, e, in breve tempo, agognato: nel corso degli anni, molte fra le più importanti star musicali di tutti i tempi avranno l’onore (e non viceversa) di esibirsi sul palco del locale romano. I Pink Floyd, i Genesis, David Bowie, Jimi Hendrix, i Nirvana, fino ad un giovanissimo Jovanotti, Loredana Bertè e Mia Martini, tutti speravano, quasi sognavano, di poter cantare al Piper.

Un’artista in particolare deve la sua straordinaria carriera musicale al locale: una sera del 1965, una ragazza di nome Nicoletta Strambelli era particolarmente ispirata, e ballava in maniera tanto coinvolgente che l’avvocatissimo Crocetta le si avvicinò per chiederle se sapesse cantare tanto bene quanto ballasse. Lei, spavalda, rispose che sì, ci sapeva fare anche al microfono. Quella sera, nacque il mito di Patty Pravo, non a caso conosciuta affettuosamente come “la ragazza del Piper”.

Gli anni passano, e del beat a un certo punto non importa più a nessuno, sovrastato dai tamburellanti e trascinanti ritmi della disco music prima e della musica house dopo. Ma al Piper la musica l’hanno pressoché inventata, che sarà mai, al confronto, innovarsi? Il locale diventa allora, fra gli anni Ottanta e Novanta, il trampolino di lancio di alcuni dei più famosi dj del Paese, da Linus, a Fargetta fino ad Albertino. E ancora oggi, dopo cinquant’anni di successi, di costume e di continua innovazione, il Piper non ha perso il fascino della prima notte, quando Roma e il mondo si accorgevano di uno sgangherato cinema romano che in poche settimane era divenuto il Nord della bussola musicale di chiunque.

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