Quel video non era da diffondere

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L’Isis ha decapitato una fila di cristiani copti sulla riva del mare che, nell’ultima scena del video, si tinge del loro sangue. Alcune testate giornalistiche hanno voluto diffonderlo integralmente. Hanno fatto male. Sarebbe bastata una foto, o anche solo la notizia per farci capire cos’era successo e risparmiare le vittime. A piazzale Loreto, quando i cadaveri crivellati di Mussolini e di Claretta Petacci furono appesi alla tettoia, una donna chiuse e fermò con una spilla da balia la gonna della giovane amante del Duce per non farla rovesciare ed evitarle, da morta, almeno il danno della vergogna. Noi siamo con quella donna.

L’Isis ha fatto il contrario: non ha soltanto decapitato quei martiri: ha fatto della decapitazione una coreografia televisiva, una danza macabra con tempi, colori e figure stabiliti da una regia esperta e rigorosa. Pensata, prescrittiva: mettere bene a fuoco l’inguardabile. Uno spot intimidatorio prolungato al quale mancano soltanto - per ovvi motivi - i titoli di coda coi nomi dei protagonisti in nero. E, per spregio, quelli delle vittime in arancione.

Non sono i soli cristiani copti ad essere stati uccisi in Libia, come ha detto la loro rappresentante in Italia, Anan Nairutz, a Pino Finocchiaro di Rainews24: li ammazzano tutti, quando li trovano. Questa strage ha in più la spettacolarizzazione compiaciuta, ossia ciò che propriamente la colloca fra gli eventi che si situano al di là del bene e del male.

La tragedia greca relegava gli omicidi fuori del palcoscenico - da cui la parola “osceno”, fuori scena. Lo spettatore ne veniva a conoscenza solo per l’annuncio che ne faceva un attore uscito dal palazzo (il fondale del teatro) in cui era avvenuto. La morte non può e non deve essere esposta. In ogni caso non deve essere spettacolarizzata, data in pasto al pubblico. È già intollerabile di per sé, quando la si incontra come già avvenuta, o se ne ha notizia. Il video nonché non esser pensato e realizzato, non doveva essere replicato, per una elementare questione di rispetto. Dovere di informare? ma allora perché non mostrare le foto dei cadaveri delle donne uccise e denudate? Perché i fotografi dei giornali non sono equiparabili ai cameramen dell’Isis? Non ci riconosciamo più nella ferocia di quell’antico popolo conquistatore che dava in pasto alla feccia gladiatori trafitti o martiri sbranati dalle fiere. Tendenzialmente preferiamo pensarci civili. Cioè pietosi.

Il cristianesimo ha esposto la morte, a partire da quella di Cristo nudo sull’infamante patibolo della croce, dalla quale deriva la lunga teoria delle raffigurazioni del martirio subito dal santi Pietro e Paolo, Lorenzo, Lucia, Agata, Andrea, Agnese, Cecilia e i loro amici nel corso dei secoli. La loro morte è il segno della permanenza nella storia dell’agnello il cui sangue lava il peccato del mondo. Trasfigurata mediante il fatto stesso di essere inserita nella bellezza dell’arte, richiama il fatto che è possibile mantenersi umani - ossia misericordiosi, capaci di perdono, innamorati di Cristo - anche di fronte alla disumanità impudica dei carnefici. Testimonia la certezza dell’esistenza di una vita che non può essere tolta nemmeno uccidendo il corpo.

L’Isis rovescia la situazione: non esalta le vittime ma i carnefici, presentando la morte in quanto inflitta allo scopo - nell’intenzione della regia - di insultare chi muore: bestie sgozzate dal macellaio. Ogni spettatore che si richiami alla croce - dice il titolo del video - sappia cosa lo aspetta. Alludendo alla festa islamica “del sacrificio” o “dello sgozzamento” questa macabra pantomima muta i termini dell’evento ebraico-cristiano cui si riferisce (il mancato sacrificio di Isacco da parte di Abramo) diventando una festa di esultanza nera (“i giorni della letizia”), al punto che la normativa liturgica islamica vieta nell’occasione qualsiasi tipo di ascesi e di digiuno.

Il segno di questa esecuzione mediatica è dunque: questa volta - cioè: quando toccherà a voi - non ci sarà nessun montone a salvarvi, perché siete voi gli animali pensati per la nostra ebbrezza. Questo per quanto attiene al livello simbolico della faccenda.

Poi c’è la reazione fisica, lo stomaco che si chiude. Una reazione che non è nemmeno di paura, come pensavano in casa di produzione. È una questione di genere umano offeso. Non vorremmo che facesse parte dell’uomo essere come quelli dell’Isis. Non vogliamo - come prima reazione - far la guerra all’Isis. Vorremmo che non ci avessero tenuto così tanto a farci sapere che esistono persone così, capaci di cose così. Non solo di uccidere, ma di mettersi lì a pensare di farlo in quel modo.

È da quando abbiamo iniziato a scrivere che dobbiamo lottare contro la voglia di dire una cosa che forse non c’entra, ma che a questo punto o la diciamo o ci facciamo del male.

Volevamo dire che abbiamo una soglia del dolore per il genere umano che soffre così bassa che non possiamo nemmeno sopportare il fatto che qualcuno - raccontando di un delitto sui giornali o alla televisione - indichi la biancheria di una donna con un nome appena più preciso di quello che abbiamo usato. Una ginnasta che compia una spaccata in gara ci esalta, la foto ostinatamente ripetuta di una vittima nella stessa situazione ci pare una mancanza grave di rispetto. D’accordo, siamo eccessivi. Abbiamo sofferto troppo, forse, e non ci siamo ancora ripresi dopo tanti anni. O dopo pochi mesi. Però, appunto per questo, per quelli che hanno il vizio di risuonare del dolore altrui, non ci pare giusto, non ci pare opportuno, non ci pare e basta che qualcuno si dedichi a far soffrire altri mostrando cose che non devono essere mostrate. Mostrando cose oscene ben più, ben più del sesso, perché è il pensiero rimosso della morte ad aver reso tale l’altro, come si sa.

Venire a sapere che i nostri fratelli cristiani copti sono stati uccisi - ma anche che dei bonzi sono stati uccisi, dei sunniti sono stati uccisi, dei fascisti sono stati uccisi, un serial killer è stato ucciso: il ricordo dell’impiccagione di Saddm Hussein o della fine di Gheddafi - ci basta per farci stringere l’anima. Vogliamo sapere che è accaduto, perché è giusto saperlo. Abbiamo il dovere di saperlo. Perché vogliamo poterli ricordare e pregare per loro come preghiamo per i nostri morti. Tutto quello che va oltre la notizia scritta, l’informazione nel suo grado zero, fa soltanto bollire il dolore del mondo, fa crescere l’odio. Per favore: no, non fatelo.

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