Un grande prete

Don Luigi Palazzolo diventerà santo. Ma un tempo gli davano del bambo

Don Luigi Palazzolo diventerà santo. Ma un tempo gli davano del bambo
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Diventerà santo un prete bergamasco.

Un prete matto.

Un prete burattinaio.

Un prete che amava ridere e pregare.

 

 

Don Luigi Palazzolo operò in quella Bergamo di metà Ottocento dove nelle zone povere non si contava il numero di bambini orfani, che vivevano di elemosine e di espedienti. Una delle zone più povere della città era quella della via Foppa, nel borgo di San Leonardo. Fu proprio lì che don Luigi Palazzolo, allora giovanissimo prete, decise di impegnarsi. Era il 1850, aveva ventitré anni. Poco più di un ragazzo, di famiglia ricca, tra le più facoltose di Bergamo. Da un lato i Palazzolo di San Pellegrino (proprietari delle fonti), dall’altra gli Antoine, di origine francese, padroni della più importante tipografia dell’epoca a Bergamo, librai, editori. Don Luigi Palazzolo restò unico erede di quella fortuna e spese tutto quello che aveva per il suo oratorio, per i suoi ragazzi. Si compì così il timore della madre, religiosissima e felice di avere un figlio prete. Ma notando la sua indole, spesso diceva: «Ho paura che questo figlio mi morirà in miseria».

Lo consideravano ignorante. La Chiesa ha riconosciuto il secondo miracolo che si può attribuire al Palazzolo. Ma viene da dire che la sua stessa vita ha avuto qualcosa di miracoloso. Siccome frequentava la gente più povera della città, c’erano molti benpensanti che non dimostravano stima nei suoi riguardi. Lo consideravano un prete ignorante, perché non amava la filosofia, un prete sciocco perché nel suo oratorio faceva di tutto per portare un clima di allegria, di festa. Per lui il cristianesimo era gioia e non mugugno, generosità e non seriosità. Anche per questa ragione era diventato uno dei più abili burattinai della città e il suo Gioppino faceva ridere migliaia di ragazzi. Veniva chiamato anche in Seminario a intrattenere gli alunni. Palazzolo - come Goldoni - utilizzava un linguaggio semplice, dialettale, talvolta inserendo dei modi di dire non del tutto “per bene”. Una volta, in Seminario, prima della rappresentazione, un professore raccomandò al Palazzolo un linguaggio «moderato e accorto». Il Palazzolo cominciò la recita con il Gioppino che diceva a Brighella: «Sai, qui siamo in Seminario e dobbiamo parlare bene, con accortezza». Poi partì con una raffica di imprecazioni e disse: «Bene, Brighella, ora possiamo cominciare».

 

 

Lo consideravano matto. In città i benpensanti lo consideravano matto. E un po’ matto don Luigi lo era senz’altro, altrimenti non avrebbe speso tutto il suo ingente patrimonio per i bambini e per i poveri. E nemmeno avrebbe deciso di parlare di Gesù e di Dio con i burattini. Eppure la sua evangelizzazione attraverso la baracca ebbe una forza impensabile. I ragazzi non soltanto seguivano le vicende dei burattini con attenzione e divertimento, ma anche le stesse prediche del Palazzolo, le storie che raccontava ogni pomeriggio sui santi, sul Vangelo, sui misteri della religione, avevano un pubblico folto e attento di ragazzini. Lui ne era consapevole. Aveva il dono della comunicazione. Ed era umile: andava ripetendo che bisognava utilizzare un linguaggio preciso, ma semplice, e che le prediche non...

 

Articolo completo a pagina 13 di BergamoPost cartaceo, in edicola fino a giovedì 19 dicembre. In versione digitale, qui.

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