Padre Marcantonio Pirovano

Un frate felice come una Pasqua in mezzo a guerre e povertà

Un frate felice come una Pasqua in mezzo a guerre e povertà
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La gente vuol bene ai frati?

«Perbacco! Quando andiamo in giro ci salutano tutti. In molti casi quando parli con qualcuno senti che al fondo c’è ammirazione. Perché la gioia di vivere è quella che tutti stanno sognando».

E voi l’avete?

«È una cosa che si vede, non si può fare il teatro».

Marcantonio Pirovano è un frate cappuccino di 81 anni. Nato a Fiorano al Serio ha combattuto la sua buona (e lunga) battaglia per lunghi anni come missionario in Africa. Oggi è pensionato e vive nell’infermeria del convento di Borgo Palazzo. Ha una passione per la pittura (interpreta a modo suo il crocifisso di San Damiano). E sorride sempre.

 

[Frate Marcantonio Pirovano, a sinistra, e Fra Pasquale Rota]

 

Padre, mi racconta le sue ottantuno Pasque?

«Sono partito presto per il Seminario, a dieci anni. Avevo conosciuto un certo padre Liberato. In quegli anni abbiamo vissuto delle bellissime Pasque. Allora non c’erano le celebrazioni come oggi. La mattina della domenica suonavano le campane, distribuivano le uova, si cantava l’Alleluja a Messa ed era tutto finito. La veglia pasquale, che è la base di tutta la liturgia, era praticamente sparita».

Come era sparita?
«Sì, fu Pio XII a riscoprirne il significato. E quando per la prima volta disse che l’Eucaristia è la Pasqua, scandalizzò il mondo intero: "Ma cosa dice quel Papa lì!", si chiedevano tutti. Fu una scoperta bellissima, la radice stessa della nostra fede. Più di così…».

Non ha mai avuto ripensamenti?

«No. Io sono povero e stupidotto, il Signore mi ha preso all’amo e basta, non ci ho più pensato».

Risultato?

«Ho vissuto una vita molto serena. Nei primi anni con me ad Albino c’era un frate educatore che faceva lo psicologo. A sentir lui bisognava avere dei problemi. Se un ragazzo non li aveva, era da rimandare a a casa (ride, ndr). Io non li ho mai avuti e sono ancora qui».

Contento di aver fatto il frate...

«Sì, sono stato sempre sereno e felice. Quando mio papà allestiva il presepio, c’era il momento in cui metteva i Magi. Una volta gli chiesi: “Papà, perché quel Re Magio è nero, è bruciato?”. Lui mi spiegò che quelli rappresentavano i popoli del mondo e il nero era l’africano: “Gli africani sono neri e laggiù ci sono i missionari, nelle foreste, che annunciano il Vangelo”. Avrò avuto quattro anni e gli dissi: “Voglio fare il missionario anch’io”».

Ma ci è andato in missione o no?

«Prima mi hanno assegnato cinque anni a Varese come assistente dei ragazzi, poi sette anni ad Albino. In seguito sono stato inviato a Roma, in periferia, dove avevamo una parrocchia al Tiburtino terzo. Ho vissuto tutte le lotte con protagonisti gli zingari, i baraccati, i drogati. Lì mi sono fatto le ossa: è stata la mia prima Africa».

E poi?

«Quando i miei superiori decisero di lasciare il Tiburtino terzo, andai dal padre provinciale e gli dissi: “Non me la sento di tornare in Italia (per noi l’Italia era qui al Nord), mandatemi in missione”. In quel momento c’era posto in Costa d’Avorio...».

E cosa ha fatto?

«Risposi: subito! Mi chiesero se avrei voluto visitare il Paese prima di accettare, ma non ci pensai un attimo, semplicemente dissi: “Vado!”. Che cosa avrei dovuto andare a vedere, prima? I giovani missionari di oggi vanno a verificare se gli sta bene il posto (ride, ndr)... Ma le pare? Che cosa significa? Noi partivamo e basta ed eravamo contenti, veramente contenti».

In Africa quanto ci è rimasto?

«Trentadue anni, sempre in Costa d’Avorio. Ventisette all’Ovest, undici dei quali da parroco, e gli altri a Sud, vicino alla capitale. Verso la fine del mio mandato di parroco scoprimmo nelle capanne alcuni bambini che letteralmente venivano lasciati marcire. Avevano grosse piaghe dovute alla malnutrizione e nessuno sapeva che cosa fare. Con due suore brasiliane costruimmo una casetta per ospitarli e venimmo a sapere che a 800 chilometri di distanza c’era una suora italiana capace di curare questa malattia che si chiama “ulcera di Buruli” (vada a vedere su internet). Tutte le settimane salivamo dalla suora italiana per portarle i bambini e imparare a curarli. Ne accoglievamo sempre di più e quando tornai in Italia cominciai a parlarne. Ebbene, i bergamaschi mi aiutarono al punto da riuscire a costruire un ospedale, con tanto di sale operatorie. Abbiamo lavorato parecchio, ma quelli furono anni bellissimi».

Poi?

«Arrivarono i ribelli e iniziò la guerra. Le comunicazioni vennero interrotte. L’ambasciatore italiano mandò l’elicottero per...

 

Per leggere l’articolo completo rimandiamo a pagina 5 del BergamoPost cartaceo, in edicola fino a giovedì 25 aprile. In versione digitale, qui.

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