Dietro di lui una rete di informatori e incursori

Abu Shujaa, o "padre coraggio" Così salva le donne yazidi dall'Isis

Abu Shujaa, o "padre coraggio" Così salva le donne yazidi dall'Isis
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Il suo nome nessuno lo conosce davvero. Tutti lo chiamano Abu Shujaa, un soprannome che significa “padre coraggio”. La sua vita è cambiata lo scorso anno, quando la furia cieca e spietata dei miliziani jihadisti si è abbattuta su quanti erano ritenuti infedeli. Cristiani prima, costretti a fuggire dalla piana di Ninive, in Iraq, e yazidi poi, il cui calvario ha avuto l’epicentro un po’ più in là, sulle montagne dello Sinjar. Abu Shijaa è l’uomo che libera le donne. Per farlo ha creato un network che si propone di penetrare nei territori dell'Isis e liberare le prigioniere e dar loro una nuova speranza di vita in Kurdistan. Fino ad oggi è riuscito a liberare 200 giovani. Racconta la sua storia al Guardian, Abu Shujaa. E lo fa citando alcuni momenti forti di quello che da un anno a questa parte è diventato lo scopo della sua vita.

La sua storia comincia da lontano. Di professione mercante, abitante di Sinjar, città al confine tra Siria e Iraq, Abu Shujaa quando ha visto da vicino la guerra e gli orrori dell’Isis ha deciso che doveva fare qualcosa di buono. Del resto, già a 18 anni aveva sfidato il regime di Saddam Hussein compiendo viaggi illegali in Siria. Adesso, più o meno 20 anni dopo, e grazie alla sua rete di contatti che si è creato negli anni della militanza contro il regime del Rias, ha creato un gruppo di soccorritori che si infiltra nei territori governati dall’Isis, e con delle vere e proprie operazioni di stampo militare fa irruzione nelle case in cui vengono tenute prigioniere le donne yazidi. «C’era bisogno di qualcuno che cercasse di tirarle fuori da questa situazione», ha confidato al Guardian. «Io non sono né migliore né più coraggioso degli altri». Ma lui, insieme agli altri, riesce in quello che finora gli eserciti impegnati a contrastare il Califfato non stanno riuscendo a fare.

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La tecnica dei piccoli gruppi di incursori. La tecnica adottata per liberare le donne è più o meno sempre la stessa. Gruppi piccoli, al massimo di sette persone, nascosti in rifugi quasi sempre sicuri, fanno incursione in stile militare negli edifici dove miliziani tengono nascoste le donne, e cercano l’appoggio dei residenti. Spesso, per penetrare nei territori occupati dall’Isis utilizzano documenti falsi e si fingono a loro volta miliziani. Non sempre le missioni vanno a buon fine. A Raqqa, lo scorso febbraio, gli jihadisti hanno scoperto due uomini di Abu Shujaa e li hanno decapitati su pubblica piazza. «Le nostre operazioni non sono di carattere militare», spiega al Corriere Abu Shujaa. «I nostri interventi non prevedono l’uso delle armi. In nessuno dei casi che abbiamo portato a termine ci sono state sparatorie con i miliziani guardiani o schiavisti. Il nostro lavoro non è individuale, ma organizzato e ben strutturato. Possiamo definirlo un lavoro di intelligence. Abbiamo una rete di attivisti che operano nelle stesse città e villaggi controllati dal Califfato. In giro c’è tanta bella gente che aiuta e solidarizza con le giuste cause e contro il male. Non sono necessariamente yazidi, ma anche siriani o iracheni di altre confessioni».

Il dramma delle donne yazidi. Quella di Abu Shujaa è una missione che lo porta a contatto con uno degli aspetti più drammatici e crudeli dell’Isis, il rapimento delle donne, soprattutto quelle della comunità yazidi. Questo gruppo è considerato eretico dalle frange più estreme del fondamentalismo islamico. Si stima che siano migliaia le donne vendute, stuprate, schiavizzate. Molte di loro sono bambine, le più grandi non arrivano ai trent’anni. Quasi tutte vengono date in sposa ai miliziani, che le trattano da schiave del sesso. Per comprare una donna si va dai 35 euro, per donne tra i 40 e i 50 anni, per arrivare ai 140 euro che servono per diventare padroni di bambine che non hanno ancora compiuto i 10 anni. Queste donne subiscono orrori tali che, stando a quanto emerge da alcune testimonianze, supplicano i loro schiavisti di ammazzarle, affinché venga messa la parola fine alla loro sofferenza. Molte di loro si sono suicidate. Continua Abu Shujaa: «Questi criminali hanno fatto della guerra un business; per loro le donne Abu Shujaa ancora da Facebook rappresentano un bottino e un mezzo per motivare i loro miliziani. Le testimonianze delle vittime sono tristi e piene di sofferenze, tutte ugualmente commoventi e dense di sofferenze causate da questi criminali. Intere famiglie sono state disgregate, le donne trasformate in schiave condotte con le catene al mercato e cedute a prezzi ridicoli, come se fossero degli animali. Molte ragazze hanno raccontato di violenze sessuali, di finti matrimoni forzati con i capi terroristi e altre costrette a subire atti carnali a ripetizione nello stesso giorno da più miliziani».

Il lavoro coi bambini. Oggetto delle liberazioni spesso sono pure i bambini. Piccolissimi, anche di 5 anni. Questa l'età cui spesso vengono sottratti alle famiglie per essere portati nelle scuole islamiche a imparare il Corano. «Quelli tra i 10 e 15 anni invece finiscono al cosiddetto Istituto Al-Farouq a Raqqa, un ex scuola trasformata in campo di addestramento. Qui i ragazzini imparano l’uso delle armi e degli esplosivi. Li addestrano anche a preparare le trappole esplosive e a usare le cinture per gli attentati kamikaze.. Molti di questi giovani sono stati utilizzati nelle battaglie sia in Iraq che in Siria, in particolare contro i Peshmerqa curdi. Abbiamo salvato 7 di questi bambini-soldati e li abbiamo restituiti alle loro famiglie». È con loro il lavoro più difficile, anche dopo la liberazione, poiché «subiscono un vero e proprio lavaggio del cervello. Chi ha passato 10 mesi in quelle condizioni, è stato segnato da un’esperienza estrema di una brutale violenza che trasforma la personalità e l’equilibrio psicologico». Abu Shujaa ha anche una pagina Facebook, dove pubblica spesso storie e foto di chi è riuscito a liberare.

Abu Shujaa e gli altri angeli degli yazidi. Sebbene Abu Shujaa sia convinto di essere da solo, non è l’unico a salvare le donne yazidi dal calvario a cui sono destinate. Insieme a lui esiste una rete sotterranea di attivisti, iracheni e siriani, che agisce con il suo stesso obiettivo. Un documentario di Channel 4 ha voluto porre l’accento su queste organizzazioni. In particolare su quella dell’avvocato Kaleel Al Dakhi, che a settembre dello scorso anno ha cominciato a compilare una serie di schede con i dettagli di tutte le donne e i bambini che erano stati rapiti dall'Isis. Da questo lavoro di schedatura, e grazie alle prime donne che da sole sono riuscite a fuggire, è nata una rete di oltre 100 uomini alleati che lavorano all'interno del territorio dell'Isis per il bene delle donne rapite. Contrabbandano telefoni da consegnare alle ragazze, si fanno indicare una posizione e le prelevano dalle case degli orrori per portarle in luoghi sicuri. Un metodo che fino ad oggi ha permesso di liberare 530 donne. Numero ancora basso, se si considera che alcuni dati diffusi recentemente parlano di 25mila donne rapite.

 

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