La morte del grande mister atalantino

Addio al Mondo, mister coraggio L'ultima intervista a Xavier Jacobelli

Addio al Mondo, mister coraggio L'ultima intervista a Xavier Jacobelli
Pubblicato:
Aggiornato:

Emiliano Mondonico, uomo-simbolo del calcio e dell'Atalanta, è morto all'alba di oggi, giovedì 29 marzo, nella clinica di Milano dove era ricoverato. Aveva 71 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato dalla figlia Clara sulla pagina Facebook del padre: «Ciao Papo... sei stato il nostro esempio e la nostra forza... ora cercheremo di continuare come ci hai insegnato tu... eternamente tua». Per ricordarlo pubblichiamo un ricordo e un'intervista di Xavier Jacobelli.

 

L'ultima volta che ci siamo visti è stato alla fine di novembre, a Rivolta. Sul Corsport avevo cominciato a scrivere una serie di ritratti dedicata ai Patriarchi del nostro calcio e, quando l'avevo chiamato per incontrarlo, lui aveva riso: «Va bene che ho 70 anni, ma non mi ci vedo con la barba lunga di Matusalemme». Siccome l'appuntamento me l'aveva fissato non in cascina, ma nella casa al centro del paese, mi ero perso nel dedalo di sensi unici. Andò a finire che lui si fiondò in mezzo alla strada per farmi uscire dal labirinto. «Ehi, diretùr! Qui non siamo mica a New York, eh. Siamo a Rivolta».

Emiliano era fatto così, come l’abbiamo sempre conosciuto: simpatico, spontaneo, alla mano. Non so perché, ma adesso che se n'è appena andato via, ripenso all'abbraccio che ci siamo dati prima di salutarci, dopo tre ore a parlare dell'Atalanta, del Toro, della Fiorentina, della malattia, del tumore, degli ospedali, del senso della vita. Un abbraccio forte, stretto, di quelli che non dimentichi mai, quando ti viene a mancare un amico, uno di famiglia, uno di noi. Come stai, Emiliano? «Ci sono trenta probabilità su cento che la Bestia ritorni. Ma, credimi, dopo quattro operazioni, l’asportazione di una massa tumorale di sei chili, di un rene, di un pezzo di colon e di intestino, sei pronto a tutto. E, ogni giorno di più, apprezzi il tempo che ti è dato. Quando il medico dell’Albinoleffe mi ha mandato a fare dei controlli perché non gli piacevano per niente quella pancia così gonfia e la brutta cera che avevo, non lo sapevo. Non sapevo che, un sarcoma come il mio, ne colpisce uno su centomila. Il primo a salvarmi la vita è stato Novellino. Non Walter eh, ma il prof. Lorenzo, il primario di chirugia generale dell’ospedale Bolognini di Seriate, vicino a Bergamo, oltre settemila interventi alle spalle, un vero angelo custode. Poi mi ha riaperto il prof. Gronchi, all’Istituto dei Tumori di Milano: un altro fuoriclasse. Quando ti viene il cancro, devi fidarti di chi ti cura e, chi mi cura, fidati, è davvero eccezionale".

Il giorno dopo, aveva letto l'intervista. Era felice. Mi chiamò per dirmi: «Che bello il titolo che avete fatto! Mi piace: "Il coraggio del Mondo"». Lo sei stato, Emiliano, il coraggio del Mondo. L’hai avuto. Sino alla fine.

 

 

IL CORAGGIO DEL MONDO
Corriere dello Sport, 30 novembre 2017

Il prossimo controllo è previsto per febbraio. «Ci sono trenta probabilità su cento che la Bestia ritorni. Ma, credimi, dopo quattro operazioni, l’asportazione di una massa tumorale di sei chili, di un rene, di un pezzo di colon e di intestino, sei pronto a tutto. E, ogni giorno di più, apprezzi il tempo che ti è dato. Quando il medico dell’Albinoleffe mi ha mandato a fare dei controlli perché non gli piacevano per niente quella pancia così gonfia e la brutta cera che avevo, non lo sapevo. Non sapevo che, un sarcoma come il mio, ne colpisce uno su centomila. Il primo a salvarmi la vita è stato Novellino. Non Walter eh, ma il prof. Lorenzo, il primario di chirugia generale dell’ospedale Bolognini di Seriate, vicino a Bergamo, oltre settemila interventi alle spalle, un vero angelo custode. Poi mi ha riaperto il prof. Gronchi, all’Istituto dei Tumori di Milano: un altro fuoriclasse. Quando ti viene il cancro, devi fidarti di chi ti cura e, chi mi cura, fidati, è davvero eccezionale». Il coraggio del Mondo è disarmante. Suscita ammirazione, stima, empatia. Ci eravamo visti l’ultima volta, un anno fa, in uno studio tv, a parlare di calcio. Emiliano è in guerra contro il cancro da sei anni, ma dissimula bene. Dev’essere per il gusto della sfida che si porta dietro da quand’era il ribelle che si faceva squalificare apposta, per non perdere il concerto dei Rolling Stones al Palalido di Milano. Dev’essere per la serenità che si respira in casa sua dove Carla, la moglie, è l’architrave e Clara, la figlia, il pilastro («Saltabecca sui social anche per me che non ci capisco nulla di Facebok e Twitter»). Dev’essere perché, arrivato alla quarta vita, tante quante le volte in cui è finito sotto i ferri, Emiliano porta una corazza invisibile. E, non solo metaforicamente, a settant’anni continua a giocare a pallone.

LA NUOVA SFIDA - «Sei anni fa ho deciso di rendere pubblica la malattia perché non puoi nasconderti e perché sai che molte altre persone vivono la tua stessa situazione e hanno bisogno di sentirsi dire: coraggio, non mollare. Sapessi quanta gente mi scrive e me lo fa capire... Il cancro non è invincibile, il calcio mi dà la forza per continuare a sfidarlo». Non è un modo di dire. Testimonial del Csi e dei suoi valori di lealtà sportiva, rispetto del prossimo, fair play; allenatore degli ex alcolisti e degli ex tossicodipendenti che, ogni giorno, lottano contro i propri fantasmi all’ospedale Santa Marta di Rivolta d’Adda; ambasciatore della Passione di Yara, la fondazione promossa da Fulvio e Maura Gambirasio, gli straordinari genitori della ragazza tredicenne di Brembate Sopra (Bergamo), scomparsa sette anni fa, il 26 novembre 2010, assassinata e il cui corpo venne ritrovato da un aeromodellista il 26 febbraio 2011, in un campo di Chignolo d’Isola, a dieci chilomeri da Brembate. «E poi alleno i ragazzi delle medie di Rivolta: è quando frequentano le medie che bisogna intervenire, parlare, educare. Si è ancora in tempo per mostrare loro, per spiegare loro che cosa sia il senso della vita. Alla fine di ottobre ho organizzato una partita fra gli studenti della scuola contro la squadra degli ex alcolisti e degli ex tossici; un’altra contro la Nazionale degli amputati, la sola Italia che nel 2018 andrà ai mondiali, in Messico; un’altra ancora contro una squadra di disabili. Al campo c’erano duecento fra ragazzi e ragazze, hanno capito molte cose. E’ stata un’esperienza bellissima. Peccato abbia risposto soltanto il venti per cento dei genitori. Vedi dove sta il problema? Un genitore non può dire ai propri figli: arrangiatevi. Nella vita, come nel calcio: uno su 40 mila ce la fa a diventare calciatore professionista. Noi dobbiamo preoccuparsi degli altri 39.999».

ITALIA EUROPEA - La tv è sintonizzata su un canale sportivo. Passa, il tempo, Emiliano. Però, l’amarezza per l’eliminazione dalla corsa al mondiale non passa mai. Siamo davvero all’anno zero? «Per niente. Giovedì scorso, l’Atalanta non ha rifilato cinque gol all’Everton a Liverpool? La Lazio e il Milan, pur con tutti i problemi che ha il Milan in campionato, non sono già nei sedicesimi di Europa League come l’Atalanta? Napoli, Juve e Roma non sono ancora in corsa per gli ottavi di Champions League? La verità è un’altra. È finito il tempo del tatticismo esasperato, deve finire. Deve tornare il tempo in cui il nostro calcio riscopra le qualità che appartengono al suo Dna: la grande difesa, il contropiede, l’organizzazione tattica, la marcatura dei difensori sugli attaccanti. L’Atalanta di Gasperini marca a uomo e hai visto dove sia arrivata l’Atalanta di Gasperini in Europa. La Nazionale? Non ho capito perché non sia stato convocato Chiesa in occasione delle sfide con la Svezia: si vede da lontano che Chiesa ha un grande futuro, come si vedeva anche lontano da Cremona che Vialli sarebbe diventato Vialli e sarebbe arrivato in Nazionale».

ODI ET AMO - Con quali giocatori o tuoi ex giocatori sei rimasto maggiormente in contatto? «Con quelli che odiavo quando li allenavo, perché erano come me quando giocavo e mi rivedevo in loro. Bobo Vieri, Filippo Inzaghi, Lentini: ognuno ha percorso la propria strada e si è fatto apprezzare in quanto persona vera. A Lentini dicevo: Gigi, non prendermi in giro, io ho fatto il 90 per cento in più delle cose che hai fatto tu. Ma, al di là dei successi, della fama, del conto in banca, alla fine conta come ti comporti e che uomo tu sia. Quelli che ti ho nominato sono uomini veri. Come il presidente di una squadra di cui ero il tecnico. Un giorno viene e mi fa: “Mister, devo dirle che la situazione della società si sta facendo critica. I conti stanno saltando in aria ed è giusto che lei lo sappia”. L’ho ringraziato. E ho replicato: così com’è giusto lo sappiano anche i tifosi. Io sto dalla sua parte, ma lei deve dire la verità ai tifosi». Com’è finita? «Che il presidente ha raccontato ai tifosi a che punto fossero le cose. Non bisogna mai prendere in giro i tifosi».

LA SEDIA DI AMSTERDAM - Non sono molti gli allenatori così amati dai fan, anche di squadre diverse, nonostante siano trascorsi molti anni da quando le hai guidate. A Firenze, ti hanno dedicato una via; a Bergamo sei un totem, anche sull’onda dell’EuroAtalanta di quest’anno che riporta ai tuoi fasti di trent’anni fa. Per non dire della gente del Toro: sono andato su Youtube a rivedere il video di Mondonico che alza la sedia nella finale Uefa di Amsterdam, una valanga di clic. E lo sai che il 5 febbraio 2011, cinque giorni dopo la tua prima operazione, decine di granata si ritrovarono fra i ruderi del Filadelfia, che allora era ancora un rudere, alzando la sedia per sostenerti, sapendo ciò che stavi passando? Mi racconti come andò ad Amsterdam? «Lo stadio della finale Uefa era vecchio, fatiscente: non è stato un caso che in seguito l’abbiano demolito. Non c’erano panchine, ma sedie. Cravero piomba nell’area dell’Ajax, c’è il contrasto con De Boer e, dalla mia posizione, mi sembra rigore netto. L’arbitro fa proseguire. Non sapendo come protestare nel modo più efficace, mi alzo. Istintivamente, levo la sedia al cielo. Quando la rimetto al suo posto, incrocio lo sguardo stupefatto di alcuni disabili che seguono la partita alle mie spalle. Imbarazzato, chiedo loro scusa subito». Ma il rigore c’era? «Macché. Me l’ha detto Cravero nello spogliatoio: Mister, non c’era».

Seguici sui nostri canali