Amadei, ritratto di un grande uomo
Pieno inverno, un freddo polare. Saranno state le undici e mezza di sera e squilla il cellulare. È il vescovo Amadei, direttamente, senza passare dal segretario. «Dove sei?». «In ufficio», rispondo. «Ma voi che giornalisti siete?». L’incipit e il tono non promettono nulla di buono. «I giornalisti non dovrebbero essere quelli che raccontano la realtà? Ma se state sempre chiusi in redazione, come fate a rendervi conto di ciò che succede? Avete provato a girare la città in queste sere? Fate un giro alla stazione invece di star lì al caldo a pubblicare agenzie».
Il 29 dicembre di sette anni fa moriva monsignor Amadei, il vescovo Roberto, un vero padre dei bergamaschi, burbero e protettivo al tempo stesso. Ne aveva conosciuti migliaia nei lunghi anni della sua visita pastorale che lo aveva portato fin nelle più piccole frazioni della provincia. Aveva voluto incontrare uno per uno gli ammalati e amava, in particolare, i giovani e i poveri. Disponibile al dialogo con tutti, sopportava un po’ meno i pregiudizi degli ideologi, perfino tra i preti, e detestava - si fa per dire - i giornalisti. Io ero uno di questi.
Oltre che vescovo, monsignor Roberto era anche editore e così, lavorando a L’Eco di Bergamo, ebbi modo di conoscerlo da vicino. Uno in genere si aspetta che un sacerdote sia un uomo dal bel carattere, un vescovo ancora di più. Amadei non era propriamente così e quando si scatenava il temporale, per la categoria che rappresentavo non c’era angolo in cui ripararsi. Per mia fortuna, accanto a sé aveva chiamato un segretario, intelligente e interista, don Alessandro Locatelli, il quale, mosso a pietà, quando le nuvole si addensavano aveva escogitato una formula per mettermi sull’avviso. Se la telefonata iniziava con: «Sei seduto?», quello era un compassionevole modo per farmi capire che l’umore dell’editore in quel momento non era dei migliori.
Amadei si scusò più volte per questo suo temperamento. Amava i libri, il silenzio e la solitudine ma era costretto a parlare, salire sui pulpiti, stare in mezzo alla gente. Il suo era un pudore antico, quello dei bergamaschi di un tempo. Riservato e timido, una volta sola vidi un prete di montagna abbracciarlo alle spalle e dirgli: «Vescovo, sono contento che tu sia qui oggi». Nessun altro credo che lo abbia mai abbracciato. Ho pensato di ricordare il vescovo Roberto raccontando qualche aneddoto. È poca cosa, rispetto al personaggio, ma la vita è fatta di episodi e a volte un dettaglio svela molto di più di un’intera biografia.
I poveri. E ricominciamo dall’incipit. È una sera d’inverno e la telefonata del vescovo continua. L’offensiva si fa sempre più incalzante e gli apprezzamenti per il nostro lavoro si sprecano. Finalmente arriva al punto: «Ma lo sapete quanti poveri stanno dormendo al freddo in queste notti? Non vi viene in mente di andare a vedere? E voi sareste un giornale di ispirazione cristiana?». Seguirono cinque minuti buoni di filippica contro la nostra categoria. La mattina seguente, la riunione di redazione fu a senso unico: «Prepariamo un’inchiesta sui senzatetto, col freddo che fa». Ci vollero due giorni ed ecco finalmente in grande evidenza il reportage, con la prima pagina quasi interamente dedicata all’emergenza clochard. Un lavoro attento e approfondito che però, una volta pubblicato, non registrò il minimo commento da parte del vescovo, quasi non l’avessimo neppure fatto.
Venni a sapere qualche anno più tardi che cosa era successo prima e dopo quella sfuriata. Andò che quella sera, tornando in macchina da un incontro, passando davanti ad alcune chiese e nella zona della stazione si era reso conto di quante persone dormivano all'addiaccio, in condizioni estreme. E seppi che all’indomani della pubblicazione dell'inchiesta, il vescovo telefonò alla Caritas con il medesimo piglio riservato a noi. L’esordio fu più o meno questo: «Ma voi avete letto il giornale che cosa ha pubblicato? Ve ne state lì a crogiolarvi in ufficio al caldo mentre ci sono persone che dormono all'aperto?», e via brontolando. Nei giorni successivi a Bergamo si aprirono dormitori e dormitorietti e per tutti i poveri ci fu un letto e un pasto caldo. Il merito se lo spartirono equamente il giornale e la Caritas.
La montagna. Monsignor Amadei non riposava mai. Il segretario decise allora di bloccargli l’agenda annuale in alcuni giorni prestabiliti per consentirgli di tirare il fiato. La sua più grande passione era camminare in montagna e con gli scarponi ai piedi stargli dietro era quasi impossibile. Il programma quella volta prevedeva una gita sopra Piazzatorre. Il giorno prima però pioveva a dirotto e il segretario cercò in fretta un’alternativa, per non consentirgli di starsene ancora a lavorare. Gli suggerii di andare a visitare la Certosa di Pavia. Al mattino (prima dell’alba) mi presento in episcopio con la macchina aziendale («Ma guarda te che macchinoni, ma pensa un po’ se possiamo spendere tutti questi soldi, ecc. ecc.»). La pioggia durante la notte non aveva concesso tregua un solo minuto e continuava a scendere. «Andiamo a Piazzatorre», esordì il vescovo. «Non si può, eccellenza, piove, abbiamo pensato di dirottarci sulla Certosa di Pavia». Dovette rassegnarsi di fronte all’evidenza.
Ma dal primo minuto del viaggio fin quasi a casa ci tormentò con un ritornello che ancora mi risuona in testa: «Secondo me a Piazzatorre c’è il sole». Visitammo la Certosa, i monaci ci accolsero con calore aprendo anche stanze di solito chiuse ai turisti, pranzammo in un ristorante ai bordi del Ticino, una giornata lieta. Interrotta a intervalli regolari dal ritornello: «Secondo me a Piazzatorre c’è il sole». Eravamo già sulla via del ritorno, in tangenziale, quando all’ennesimo «c’è il sole» decidemmo – io, il segretario e un altro prete - che la misura era colma. Cercammo un numero di telefono qualsiasi a Piazzatorre, un bar, un servizio pubblico, non ricordo bene: «Scusi, chiamiamo da Milano, vorremmo sapere che tempo fa lì». La risposta in viva voce fu liberatoria: «Qui? Sono due giorni che c’è il diluvio universale». Il vescovo incassò senza fare una piega, si girò un po’ sul fianco e si addormentò. «Bella la Certosa», fu l’unica frase pronunciata all’arivo.
Con la montagna, tuttavia, Amadei ebbe modo di rifarsi altre volte. E una in particolare mi è rimasta in mente. Ad accompagnarci al Brunone (credo fosse il Brunone, per me le montagne son tutte in salita), fu il grande alpinista Mario Merelli. Quel giorno il vescovo era felice. Durante la discesa, però, ci accorgemmo che zoppicava un po’...
Il dolore. Pellegrinaggio dei bergamaschi a Roma in occasione di una ricorrenza di Papa Giovanni. Avevano aderito centinaia di persone. Primo appuntamento per le confessioni nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura. Il vescovo era arrivato come sempre in anticipo e presiedette la celebrazione. Al termine lo raggiunsi in sacrestia e per la prima volta vidi nei suoi occhi un po' di smarrimento. Mi venne incontro: «Non sento più la gamba, c’è qualcosa che non va». Sembrava spaventato, non lo avevo mai visto così. «Ha parlato con il medico?». «Non ancora». «Chiamo io in ospedale a Bergamo», gli dissi. Esco dalla Basilica e mi metto al cellulare. Detto, fatto. «Il primario verrà da lei lunedì pomeriggio, perché la mattina è in sala operatoria». Mi rimproverò, ma stavolta senza troppa convinzione: «Ma chi sei andato a scomodare, casomai andrò io da lui, ma guarda te se è il modo di fare, non voglio passare davanti ad altri» e via di seguito. Quella volta non lo ascoltai: «Lei stavolta obbedisca».
Scoprii così che nella sua vita dedicata al prossimo, mai aveva approfittato della sua posizione, scoprii che si comportava come l’ultimo dei bergamaschi: lui che aveva sempre avuto a cuore l’ospedale non aveva mai chiesto qualcosa per sé. Quella volta obbedì, ma gli esami rivelarono una malattia terribile, la Sla, che se lo sarebbe portato via in pochi mesi. Uno dopo l’altro, i muscoli cominciarono a non rispondere più. Tuttavia, più il male progrediva più il suo volto si faceva sereno. Pregava ininterrottamente nella sua stanza in via Garibaldi, dove si era trasferito dopo essere andato in pensione.
Ebbi ancora modo di vederlo per un’ultima sgridata. Avevo fatto un titolo un po’ forzato a un intervento del nuovo vescovo: «Separati, nella chiesa a testa alta» (non erano ancora i tempi di Papa Francesco…). Mi mandò a dire che voleva vedermi. Entrai nella camera, si tolse la maschera dell’ossigeno - respirava a fatica -: «Chi ha fatto quel titolo?». «Io, eccellenza». «Sei tutto matto», disse in dialetto scuotendo la testa. «Devi stare attento a non mettere in imbarazzo il nuovo vescovo, stagli vicino». Si lamentò ancora un po’ per la mia sfrontatezza, poi si rimise la mascherina. Gli presi la mano. Tolse di nuovo la mascherina: «Per me è ora di andare. Salutami tutti i giornalisti e ringraziali uno per uno a nome mio. Sono stato contento del giornale». Non lo aveva mai detto prima.