Dalle Orobie alle tribù di cannibali

Antonio, l’ex operaio della Sace che ha fotografato tutto il mondo

Antonio, l’ex operaio della Sace che ha fotografato tutto il mondo
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«È cominciato tutto dalla montagna. Facevo l’operaio alla Sace, mi iscrissi all’Uoei, l’Unione operaia escursionisti italiani. E cominciai a conoscere questo mondo. Imparai anche a sciare. La prima volta che misi gli sci ai piedi andammo in pullman a Lizzola e scendemmo giù a Valbondione. Caddi tante di quelle volte che alla fine avevo il sedere nero. Ma imparai». Antonio Facchinetti è nato ottantadue anni fa nelle case popolari della Malpensata; il papà lavorava all’Esperia in torneria, la mamma era casalinga, completavano la famiglia tre sorelle. La sua passione per la fotografia è nata con la montagna e lo ha portato a diventare uno dei fotografi più bravi a Bergamo, autore di diversi libri pubblicati da editori importanti come De Agostini. Alla sua opera, Silvana Milesi ha dedicato un libro: Non solo obiettivo: lo spirito del pianeta (Corponove editrice). Adesso le sue immagini confluiranno nel più grande archivio e museo fotografico d’Italia, quello inaugurato poche settimane fa nel museo storico della città, al chiostro di San Francesco, in Città Alta.

 

 

Continua Facchinetti: «Ho percorso tutte le Orobie; avevo un carattere un po’ particolare, mi piaceva camminare da solo, seguire la mia curiosità senza badare troppo a quello che chiedevano gli organizzatori delle escursioni. Poi, quando avevo trentadue anni, decisi di affrontare un lungo viaggio. Fu per una delusione amorosa, decisi che dovevo tirarmi fuori. Andai in Kenya e in Uganda. Lì mi ammalai di mal d’Africa, per davvero. Ancora adesso, qui, in questo momento posso sentire il profumo della foresta, il suono dei tamburi, quei canti dei villaggi. E poi quei tramonti immediati, repentini. Incredibile. Anche lì facevo cose un po’ particolari. Tipo: prendevo la bici e mi inoltravo da solo nella foresta». Facchinetti racconta che alla fotografia è arrivato tardi: era il 1970 quando andò a Ceylon, munito di una Olympus. Cominciò a scattare immagini. «Il fatto era che tante meraviglie me le portavo nella memoria, ma la memoria non basta. Le fotografie sono documenti, sono dei certificati: quello che hai visto è vero, il tempo che hai trascorso è reale. Non è stato solo un sogno». Dopo l’Uoei, l’iscrizione al Cai, le salite anche a vette impegnative. Racconta il fotografo: «Una volta eravamo nelle Alpi Francesi, il capo spedizione era Armando Pezzotta, che chiamavamo “Il Baffo”. Lui mi chiese camminando: “Ndò ét ist’an, Fachinet?” e io gli risposi che quell’anno sarei andato in Polinesia. Da allora, per tutti gli amici del Cai, fui "Polinesia"».

Nel 1974, “Polinesia” si dotò di una Nikon. Aveva già viaggiato in Polinesia, appunto, a Giava, Madagascar, Papua Nuova Guinea. I suoi reportage erano molto apprezzati a Bergamo. «Giravo le case, venivo invitato per delle serate di diapositive, avevo successo. In una di queste case conobbi quella che sarebbe diventata mia moglie. Lei fu decisiva, mi aprì la mente, fece in modo che entrassi in contatto con le case editrici, che proponessi i miei lavori. Fu grazie a lei che cominciai a pubblicare libri. Poi, purtroppo, le cose fra noi non sono andate bene, peccato». Facchinetti abita da solo in un bell’appartamento di via 24 Maggio. La mattina si alza presto, esce a camminare in città, beve il caffè, poi torna a casa, pulisce e mette in ordine. L’appartamento è uno specchio. Dice Facchinetti: «Ci tengo molto alla casa. Purtroppo non posso più andare in montagna, non sto proprio benissimo. Anziché le montagne, giro gli ospedali. Ma quello che dovevo fare l’ho fatto. Ho visto il mondo. Sono stato persino in mezzo a una tribù di cannibali, nel 1975, in Papua Nuova Guinea. Eravamo un gruppo di sei persone e il capo spedizione aveva vietato di allontanarsi. Io me ne fregai e andai lo stesso, da solo, in mezzo al villaggio, scattai le fotografie, non mi accadde nulla di male. Era un villaggio di guerrieri, le donne lavoravano e i maschi, per tutto il giorno, si allenavano a fare la guerra. Lo stesso feci in Amazzonia, in mezzo agli Yanoama, anziché nel campo organizzato con le tende andai a dormire nelle capanne, con gli indigeni del fiume. Altrimenti come avrei potuto scattare fotografie di certi momenti, certe espressioni? Certo, a volte loro si infastidivano per il mio armeggiare e si arrabbiavano, ma io urlavo più di loro, e mi rispettavano. Ero fatto così. Un “sacrament”».

 

 

Negli Anni Ottanta, a Bergamo Facchinetti era molto conosciuto. L’operaio-fotografo teneva incontri e mostre al Centro San Bartolomeo diretto da padre Agostino Selva. Le sue immagini di Amazzonia e Groenlandia, di iceberg che si scontrano e di coccodrilli dalle enormi fauci, affascinavano i bergamaschi. Ma il libro a cui Facchinetti è più affezionato è quello sulla nostra montagna. «Fotografai l’arco di una vita, dal battesimo al funerale, tutto in bianco e nero. È una testimonianza che penso aiuti a fare conoscere la bellezza di una vita che ci apparteneva e che non dobbiamo dimenticare».

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